Sono stati giorni molto intensi, pieni di parole e di lunghi silenzi. Dentro di me c’è una continua evoluzione, e forse anche un’elaborazione di quello che è stato il mio percorso, umano e politico. Settimana scorsa ho scelto di espormi, e l’ho fatto mettendo corpo e anima al centro della società, pronta a farmi frantumare.

L’ho fatto perché ho voluto rimettere nelle mani della collettività il mio dolore, consapevole nel percorso che non è più il tempo della colpa del singolo. Non di chi ammazza, non di chi muore, bensì di tutte e tutti noi, responsabili di essere arrivati a questo punto della storia.

Il ruolo della politica

Responsabilità, dal latino respondere promettere, impegnarsi, rispondere e che ha facoltà di farlo. Chi tra noi ha il dovere e il potere di rispondere ai problemi della nostra collettività non può essere il singolo poiché nella struttura che abbiamo scelto di dare alla nostra società, l’amministrazione pubblica è una gerarchia verticale; in cima alla piramide c’è una figura che sceglie la rotta, la direzione da seguire e gli obiettivi da raggiungere.

Le policy sono quella parte concreta della politica che trasforma i problemi reali in soluzioni effettive. Noi non siamo più abituati a parlare di policy, perché oggi le soluzioni sono esse stesse la preoccupazione della politica del divide et impera.

Siamo frammentati, dentro e fuori, confini, muri, barriere, e in queste divisioni scorre la paura, che facilmente prende forma attraverso l’odio. Esattamente lì vive e si rafforza questa politica, potendo alimentare una promessa elettorale continua, una propaganda che plasma e manipola.

Ero insieme a mia mamma e mia figlia a prendere una tisana in via Cesarea, a Genova, quando ho ricevuto un messaggio seguito da una chiamata: era Giorgia Meloni.

Mentre rispondevo al telefono fuori dal bar, guardavo dalla vetrina mia mamma ridere insieme a mia figlia. Ho deciso che quella chiamata sarebbe stata un atto politico in più per interrompere il ciclo della violenza che viene continuamente spostato sulla generazione successiva; presa coscienza di questo, ho voluto tenere il punto fermo e deciso della mia azione.

Che il/la (sono in conflitto tra rispettare la sua scelta o proporre la mia posizione) presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica chiami la consigliera comunale di opposizione del consiglio comunale di Genova (che si è sbudellata per urlare alla collettività che il problema sistemico della violenza di genere che respiriamo è un problema politico), per comunicare la ricezione del messaggio e la volontà di trasformarlo in azione politica, è una cosa bella.

Significa affrontare il problema guardandolo dritto negli occhi, come ho chiesto di essere guardata in aula mentre spogliavo il mio dolore.

Una risposta collettiva

Fare questo si traduce in policy, che è il presupposto per iniziare realmente dei progetti collettivi. Che questa comunicazione si riduca alla vicinanza personale nei confronti della mia storia, cosa che, ribadisco, rispetto e di cui ringrazio, non è tuttavia abbastanza.

Perché il punto non è la mia storia o il mio vissuto: la mia, purtroppo, è una delle tantissime storie. E scegliere di riportare la situazione sul singolo significa non aver compreso che il mio gesto è volutamente politico, dalla scelta del luogo a quella delle parole, per portare la responsabilità esattamente all’interno delle istituzioni.

Come nel mio intervento in aula, così nella chiamata con la presidente, ho parlato di educazione alle emozioni perché proprio dai nostri figli e le nostre figlie dovremmo iniziare, comprendendo che è l’investimento più efficace e potente attraverso cui avviare un percorso – a proposito di risposte concrete per problemi reali.

Se mi guardo intorno, bambini esattamente come quella che chiamo “mia” continuano a morire di fame, uccisi da bombe, schiacciati nelle miniere, affogati tra le onde davanti a occhi di madri esattamente uguali a me, colpevoli solo di avere un “destino tracciato da frontiere storte disegnate a mano”.

Sono una delle tante storie, così diffuse tra di noi, che hanno abituato i nostri occhi e i nostri cuori ad accettare e normalizzare la violenza, addirittura giustificandola come necessaria per il progresso. Non c’è futuro per la collettività finché la singola persona continua a soffrire nel silenzio della società, perché quel dolore è, e deve essere, dolore di tutti.

Perché quaggiù, io, Gino Cecchettin, Chiara Tramontano possiamo continuare a trasformare il singolo dolore in amore comune, ma non basta. E non possiamo continuare a morire per avvicinarci alle soluzioni centimetro dopo centimetro, perché abbiamo raccolto abbastanza sofferenza per decidere la direzione e iniziare a navigare consapevoli delle onde e dei venti che soffiano.

Vorrei che la mia generazione e quella di mia figlia iniziassero a osservare e comprendere il Maestrale, per far sì che gonfi le vele dell’umanità.


Testo raccolto da Francesca Moriero 

© Riproduzione riservata