L’esito delle elezioni americane ha innescato un dibattito sulle implicazioni che se ne possono trarre per i destini della sinistra, anche di quella italiana. Da un lato, c’è chi ritiene che la sinistra abbia perso perché è apparsa ostaggio delle componenti più radicali (alle quali viene associata la stessa Kamala Harris), e quindi perché è andata troppo a sinistra, sotto l’influenza delle élites istruite delle grandi università delle due coste, dei giovani radicalizzati, dei movimenti per i diritti civili. II suggerimento è dunque di invertire decisamente la rotta e di guardare più al centro.

Ma dall’altro lato c’è chi invece pensa il contrario: la sinistra ha perso perché è andata troppo verso il centro sul piano delle politiche economiche e sociali. Dimenticandosi dunque dei forgotten men, di coloro le cui aspettative di miglioramento delle condizioni di vita e di quelle dei loro figli sembrano sempre più richiudersi per effetto della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica. Una vasta area sociale fatta dalla classe operaia tradizionale, dallo small business e dalle attività rurali, molto lontana dalla modernizzazione culturale cosmopolita e libertaria delle grandi conurbazioni.

In realtà queste due letture sono solo apparentemente in contrasto. Si potrebbe infatti dire che la sinistra si è spostata più a sinistra, o meglio si è concentrata di più, sul terreno culturale e dei diritti civili. E invece si è orientata più verso il centro sul terreno delle politiche economiche e dei diritti sociali, trascurando il contrasto delle disuguaglianze che nel frattempo sono molto cresciute. In effetti l’orientamento politico è sempre più influenzato da due dimensioni distinte.

Quella economica, o di classe, varia tra le preferenze per più mercato da un lato o maggiore regolazione politica e redistribuzione dall’altro. La dimensione culturale varia invece dalla condivisione di orientamenti più tradizionalisti (su famiglia, ruolo delle donne, religione, orientamenti sessuali, sicurezza, immigrazione, ecc.) all’adesione a una visione più libertaria e cosmopolita.

Fino ad alcuni decenni fa i gruppi sociali che erano più favorevoli a interventi regolativi dello stato e a una incisiva redistribuzione (a partire dalla classe operaia) condividevano maggiormente gli obiettivi di una moderata modernizzazione culturale. Questo relativo equilibrio era il frutto di una modernizzazione culturale ancora limitata ma anche di un forte impegno della sinistra nel contrastare le disuguaglianze attraverso la piena occupazione e interventi a favore del lavoro, il welfare, le relazioni industriali.

Un impegno capace di combinare le lotte per i diritti sociali con quelle per i diritti civili (si pensi alla mobilitazione degli anni ’60 negli Usa su temi come il contrasto del razzismo e le condizioni delle donne e insieme all’estensione delle politiche di protezione sociale).

Questo equilibrio relativo tra rivendicazioni economico-sociali e culturali si rompe a partire dagli anni ’80 (e non solo negli Usa). I partiti di sinistra – com’è stato documentato da varie ricerche – si spostano verso il centro sul piano economico e sociale, subendo l’offensiva del neoliberismo e delle sue ricette. E tendono a distinguersi da quelli conservatori più sul terreno dell’azione per i diritti civili (si pensi al tema dell’aborto nella campagna della Harris).

Si determina così una sorta di mismatch tra le domande di sostegno della base popolare tradizionale della sinistra e l’offerta del partito, sempre più presidiato dalle élites istruite e dai nuovi ceti medi cosmopoliti ben inseriti nella globalizzazione. Il fossato non solo politico ma anche umano tra questi gruppi e la base popolare ha offerto a abili imprenditori politici – non solo negli Usa - un terreno fertile per un’azione che punta a mobilitare le identità culturali tradizionali alimentando il risentimento verso l’establishment.

In questo modo viene anche fatta passare, almeno per qualche tempo, una strategia di politica economica, basata su neo-protezionismo e ulteriori ribassi delle tasse ai più ricchi, che non potrà che portare a disastri. E che è contraria agli interessi stessi della base popolare.

Ma se è così, la lezione per la sinistra non può essere quella di un generico guardare al centro, nel senso di adeguarsi ancora di più agli standard del riformismo tradizionale che ha fallito. Ci vuole evidentemente una ricetta diversa, ma non è detto che la sinistra riesca a realizzarla.

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