Ormai da molti mesi i riflettori non sono più puntati sul tema del reddito minimo. Un emendamento alla Legge di bilancio proposto dalla maggioranza introduce novità non da poco che sembrano in qualche modo essere un’ammissione di fallimento rispetto al modello in vigore ormai da un anno. Sullo sfondo resta una visione delle politiche sociali che sconta un approccio fondato sulla colpevolezza di coloro che oggi non hanno un lavoro
Ormai da molti mesi i riflettori non sono più puntati sul tema del reddito minimo. Dopo il grande dibattito che ha accompagnato la sostituzione del Reddito di cittadinanza con l’Assegno di inclusione e il Supporto per la formazione e il lavoro sembrava quasi che il problema non esistesse più. Il ritorno alla realtà avviene invece a mezzo di un emendamento alla legge di Bilancio proposto dalla maggioranza che introduce novità non da poco che sembrano in qualche modo essere una ammissione di fallimento rispetto al modello in vigore ormai da un anno.
Per l’Assegno di inclusione crescerà la soglia Isee, la soglia di reddito familiare e anche l’integrazione del reddito. Ma è soprattutto sul Supporto per la formazione e il lavoro che vengono introdotte le modifiche più significative. Si tratta, ricordiamo, dello strumento pensato per coloro che sono considerati “non occupabili”, ossia coloro nella fascia d’età tra i 18 e i 59 anni che vivono in nuclei famigliari senza minori, over 60 e persone con disabilità. In questo caso non era previsto un reddito minimo garantito, ma una indennità di partecipazione, di soli 350 euro al mese, a percorsi di formazione per massimo 12 mesi.
I dati disponibili, aggiornati a giugno 2024, mostrano tutti i limiti dello strumento. Infatti, le domande presentate dai potenziali beneficiari sono state solo 94mila rispetto a un target per il 2024 di 320mila e una platea complessiva stimata in 476mila persone.
I limiti erano chiari fin dall’inizio, a partire dall’importo dell’indennità, esiguo e fortemente diseguale rispetto ai percettori di Assegno di inclusione, disuguaglianza presente anche nei criteri di accesso, con la soglia Isee che era inspiegabilmente inferiore di 3.500 euro rispetto a quella dell’assegno. Ora si interviene su questi elementi di fatto parificando la soglia ISEE, alzando da 350 a 500 euro l’indennità di partecipazione e rendendo il supporto prorogabile per altri 12 mesi dopo il primo anno. Sono interventi che non cambiano l’impianto introdotto lo scorso anno che, di fatto, ha eliminato l’universalismo del reddito minimo attraverso la condizionalità pensata per i non occupabili.
Sistema inefficace
L’obiettivo sembra quello di rendere più invitante la proposta allargando l’indennità, ma questo non elimina le criticità strutturali del modello. La prima è che per anni, giustamente e alla luce dei dati, ci si è profusi in critiche sull’inefficienza del sistema delle politiche attive in Italia e dell’efficacia dei servizi per il lavoro, soprattutto quelli pubblici.
E ora, pur coscienti che poco o nulla è cambiato su questo fronte, si continua ad affidare completamente la sopravvivenza di centinaia di migliaia di persone al fatto (che parrebbe così dato per scontato) che troveranno un corso di formazione mediante lo stesso sistema di servizi per il lavoro che si è rivelato per così tanto tempo inefficace.
E non solo lo troveranno, ma lo troveranno subito (perché nel frattempo rimarranno senza sussidio), e questo avverrà a partire dagli stessi servizi al lavoro che, ad esempio, con Garanzia Giovani hanno lasciato altrettante centinaia migliaia di persone registrate senza alcuna proposta.
Dopo un anno, infatti, non sappiamo il tipo di formazione svolta da coloro che hanno presentato la domanda e non sappiamo, soprattutto, se questa ha poi portato come esito a un lavoro, cosa che parrebbe scontata nell’impianto dello strumento.
Sullo sfondo resta una visione delle politiche sociali che sconta un approccio fondato sulla colpevolezza di coloro che oggi non hanno un lavoro senza interrogarsi sulle cause di questa condizione e che introduce criteri di merito dei sussidi non solo legandolo al comportamento (la ricerca attiva del lavoro), ma basandosi su elementi puramente anagrafici. Un approccio che sembra ignorare le criticità strutturali del mercato del lavoro italiano e delle sue frammentazioni e disuguaglianze.
Il rischio principale è la riduzione del reddito disponibile per una fetta ampia di popolazione che si trova ora senza reddito e senza lavoro. La causa è la medesima all’origine delle disfunzioni del Reddito di cittadinanza, ossia la mancata volontà di una profonda riforma del sistema delle politiche attive del lavoro in Italia.
E così facendo si ricade nello stesso inganno di fagocitare tutto il tema delle politiche attive all’interno del discorso sui sussidi per la povertà, e quindi rendendole di fatto inefficienti sia per la fascia bassa che per quella alta del mercato del lavoro.
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