Camminando lento tra gli alberi in cui ha sempre corso felice, Billy il cane va a morire. Il suo tempo è finito e, sebbene abbia vissuto una vita piena e bella, con degli umani che per anni l’hanno accudito e allevato, adesso, sentendo che gli resta poco, vuole lasciarsi andare da solo; come fanno molti animali.

In Billy il cane, Ponte alle Grazie, 2024, Alberto Rollo ci racconta, tornando indietro nel tempo, con la memoria, la storia del suo Billy. L’infanzia disgraziata, l’arrivo nella propria casa. Editor e scrittore, finalista al premio Strega 2017, Rollo indaga la natura di un cane e, al tempo stesso, quella umana calandosi nei recessi più profondi.

Rollo, ricorda il momento in cui si è detto okay, scrivo di Billy?

L’idea è maturata lentamente. Dapprincipio pensavo a un albo illustrato, ma poi mi sono detto che scriverne era, in realtà, la scelta migliore.

Delle illustrazioni ci sono, però. Di Nicola Magrin.

Sì, è vero. Nel 2021 ero in Val d’Aosta, e assieme a me c’erano Cognetti e Magrin. Nonostante Billy fosse morto da quattro anni, mi tornava alla mente spesso, e specie in contesti come quelli - amava la montagna. Tra l’altro, Cognetti lo aveva conosciuto, Billy: appunto, avevamo trascorso qualche giorno assieme in montagna - al solito, per via del caratteraccio di Billy, Paolo era stato costretto a lasciare Lucky, il suo cane, alla baita. Insomma, era il 2021, eravamo in montagna e a Billy pensavo tanto, per cui chiedere a Nicola delle illustrazioni mi venne spontaneo.

Non riesce a rintracciare, dunque, un momento specifico.

No. Ha lavorato il trauma della perdita, di quella perdita.

Torniamo allora ai giorni in cui Billy sparì.

Andai in giro per le campagne per molte ore, chiedendo agli uomini del posto e ai cacciatori di riportarmi quantomeno la medaglietta, nel caso in cui non avessero trovato il corpo. Furono proprio gli uomini di campagna a spiegarmi che era piuttosto normale: i cani quando sentono che è giunta la loro ora si allontanano, si nascondono per morire da soli. Ecco perché non era più tornato da noi, a casa.

Lei non lo sapeva? Che quando sentono di stare per morire tendono ad allontanarsi, intendo.

No, e sul momento lo trovai assurdo. Poi, pian piano, ho messo tutto a fuoco.

Cosa?

Che andava bene così. E che, anzi, era giusto così. Billy, nascondendosi, in punto di morte aveva trovato la strada per sottrarsi sia ai nostri occhi, sia alla siringa: stava morendo secondo natura.

Quando ha realizzato che non sarebbe più tornato com’è stato?

Un trauma, ripeto. Un lutto grande, molto doloroso. Era stato con noi per quindici anni.

Sapeva che stava per morire?

Sì, erano successe delle cose strane per cui io e mia moglie lo avevamo intuito. Giorni prima eravamo stati al festival di Carpi - io, mia moglie, Billy. Di solito in macchina stava buono, tranquillo, ma quella volta, in auto, quando ci fermammo già in Lunigiana per il caffè si svegliò guaendo in modo agghiacciante - un tono che non avevamo mai sentito. Ecco, allora ci dicemmo che era arrivato il suo momento.

E poi?

Arrivati nell’oliveto a San Terenzo Monti si allontanò senza più tornare. Come dicevo, lì per lì ebbi una sensazione fra la ferocia e la stranezza ma poi, col tempo, capii che la dignità di quel gesto aveva un valore.

Dignità?

Sì. La dignità di morire a modo suo, senza l’imposizione umana, quella di rimanere parte del regno animale.

Trova che nel morire da soli ci sia dignità? Ha a che fare con il non mostrarsi in un momento di così grande fragilità?

La ricerca di una forma di solitudine nei momenti in cui ci sentiamo più fragili credo sia normale, naturale.

Ritorno alla ferinità, alla natura. A tal proposito. Nel romanzo Billy stesso dice che per la ciotola piena e la cuccia asciutta deve mostrare fedeltà, lealtà all’uomo. Ma la lealtà della specie, dice, è una idiozia: i cani ci vengono incontro, spaventati all’idea di tradire però tentati di farlo. Viene così stipulato un patto vantaggioso per entrambe le parti - uomo e cane – ma, Rollo, lei sta ancora parlando di animali?

Vale anche per gli uomini, certo.

Questo romanzo, quindi, è anche un’indagine sulla nostra parte più selvatica, la parte più profonda dell’uomo. Cos’ha trovato, laggiù?

Spavento. Spavento pure di noi stessi, della nostra parte animale. Capita spesso di dimenticarlo, ma in noi c’è eccome, la bestia, l’animale.

Quando viene fuori?

Quando siamo consumati dalla rabbia. Ma soprattutto, nell’eros.

Tornando al patto?

Per vivere dobbiamo stringere un patto - lo disse bene Thomas Hobbes: partire dall’homo homini lupus. Io non ti aggredisco se tu non mi aggredisci, io ti do se tu mi dai. Finché vige questa regola non scritta, riusciamo a coabitare. Lì inizia la civiltà.

Non siamo naturalmente buoni, secondo lei?

No. Sentiamo costantemente la tentazione di non essere buoni, in realtà. Ma il patto, stretto con la società attorno a noi, ci fa tenere questo istinto nascosto, sepolto.

Siamo cattivi.

La bontà è un esercizio cristologico, una spinta al sacrificio: noi diamo, appunto, sacrifichiamo noi stessi per accedere a un sentimento benevolo e riconoscere l’altro. Ignorando i nostri istinti sacrifichiamo noi stessi.

Che fine fa la morale, allora?

La morale è per l’appunto la chance che ci siamo dati per rimanere nei confini del patto di cui parlavamo.

Scusi, però quello è opportunismo.

Non credo. Ma se vogliamo restare dentro quest’area semantica, sì, abbiamo l’opportunità di stabilire dei confini e di non farci del male a vicenda. Possiamo non volerci bene, ma possiamo convivere.

Tornando a Billy. Mi racconta un momento della quotidianità con lui che nel libro non ha scritto?

Mi succedeva spesso di uscire la sera per incontri di lavoro e di ritornare tardi, poi. Mia moglie dormiva già, la casa era buia, silenziosa. Entravo, facevo qualche passo e subito lo vedevo spuntare in corridoio, allora mi veniva in contro e mi si avvicinava, mi guardava e poi tornava a dormire tranquillo. Senza smancerie, senza grandi movimenti: veniva soltanto a controllare fossi tornato e, chissà, forse a salutarmi, darmi il bentornato. Ecco, era un momento molto bello, e io poi andavo a letto sereno.

Nel primo periodo dopo la sua morte si aspettava di vederlo venirle in contro, lì in corridoio?

Sempre. Nei primi giorni, forse addirittura nelle prime settimane, senza rendermene conto, lo chiamavo, non avendolo attorno.

Lei lo ha definito un antieroe. Perché?

Perché non portava avanti alcuna causa, lui, anzi, portava avanti le sue controcause. Non era Ettore, era Achille. E poi era bruttino, e gli eroi di solito sono belli.

Non era un bel cane?

Ride. No, non molto. Per me lo era, ma non credo lo fosse davvero. Nel periodo subito successivo l’adozione, dopo aver passato i primi tempi della sua vita con l’uomo che lo trattava male e lo teneva alla catena, era magro, spelacchiato. E aveva un caratteraccio. Si azzuffava in continuazione. Se sulla sua strada incrociava un cane più grosso di lui si poteva essere sicuri che lo avrebbe attaccato. Raramente riusciva a stare con altri della sua specie, soprattutto se più impostati. Aveva una smania incontrollabile di far vedere che era lui il maschio alfa.

Con lei, però, era diverso.

Era diverso con le persone. Avevamo stretto un patto, in fondo, ricorda?

Rollo, potesse trascorrere un’ultima giornata con il suo Billy, cosa vorrebbe fare?

La nostra passeggiata al parco, niente di più. A lui piaceva molto andare in montagna, correre libero, inseguire le marmotte, ma credo vorrei solo fare con lui la nostra ultima passeggiata al parco. Erano dei momenti di grande intimità tra me e lui: c’eravamo solo noi. E in quei momenti, tra l’altro, gli parlavo molto. Non come fa certa gente, niente smancerie, o cose strane, no. Gli parlavo come fosse un amico, gli raccontavo - anzi, mi raccontavo. E se potessi mi racconterei a lui un’ultima volta andando al nostro parchetto.

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