Dopo la morte del padre, Pier Silvio Berlusconi aveva promesso un cambio di rotta per Mediaset, simboleggiato dall’addio di Barbara D’Urso. Il caso dell’omicidio confessato all’inviato di Pomeriggio 5 dimostra che non c’è rivoluzione più efficace di quella che finge di sconvolgere il sistema vigente riadattando le sue forme alla contingenza del presente, senza però sbarazzarsene mai
Tra i personaggi interpretati da Alain Delon, potremmo dire che quello rimasto con più prepotenza aggrappato al nostro immaginario collettivo è il Tancredi del Gattopardo, perché oltre alla sua straordinaria figura, tra danze con Angelica e verve da nobile rivoluzionario che spiega il futuro a Burt Lancaster, ha cucita addosso una citazione letteraria spendibile in qualsiasi contesto.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», che significa? È la prima domanda che ti fa la professoressa di lettere al liceo, dopo averti assegnato la lettura di Tomasi di Lampedusa per l’estate, è il corrispettivo fatalista e disilluso della Corazzata Potëmkin fantozziana, la frase a effetto da sfoggiare in tutte le occasioni, a cena, coi colleghi, per fare colpo. Perché quel Tancredi affascinato dai moti garibaldini, in effetti, ci aveva visto bene con la sua lungimiranza, o «resilienza», per renderlo più attuale; non c’è rivoluzione più efficace di quella che finge di sconvolgere il sistema vigente riadattando le sue forme alla contingenza del presente, senza sbarazzarsene.
Ed è così che sta in vita la televisione oggi, scoria novecentesca, come la nobiltà siciliana alla fine del diciannovesimo Secolo, bombardata dai cambiamenti, in piedi grazie al ricordo, ripiegata su sé stessa, fondamentalmente sempre uguale, anche quando dice di essere cambiata.
Promesse rinnegate
All’indomani della morte del padre, Pier Silvio Berlusconi ha vestito i panni di un Tancredi mediatico. Abbiamo assistito tutti con i nostri occhi ai cambiamenti presentati come epocali – ma sostanzialmente non così stravolgenti – delle reti televisive private italiane per eccellenza, eredità del grande impero berlusconiano.
L’addio di Barbara D’Urso al pomeriggio di Canale 5, la sua roccaforte, o il suo tendone da circo, a seconda dei punti di vista, crocevia di personaggi improbabili che davano colore all’universo composito e variopinto dei programmi Mediaset, sembrava un cambio di passo radicale rispetto all’identità della rete. Myrta Merlino, volto meno istrionico e più avvezzo all’attualità che allo spettacolo, rappresentava il cambio di marcia, il nuovo che subentra e che, per osmosi, applica la sua identità alle pareti dello studio televisivo.
Ma la lotta tra contenuto e forma – L’anima e le forme, scriveva Lukács agli inizi del Novecento – quando si parla di televisione, ma anche di qualsiasi altra opera di rappresentazione, è in dialettica costante, e l’influenza reciproca fa sì che, ad appena un anno dal suo ingresso a Canale 5, Merlino si ritrovi tra le mani un caso di cronaca nera e un episodio di «pornografia del dolore», come eravamo soliti apostrofare la televisione di D’Urso, piuttosto importante. Il format che divora il content, il passato che riemerge con prepotenza, l’illusione del cambiamento che si scontra con la pragmaticità della contingenza.
Gattopardianamente, Pomeriggio 5 si trova a ripetere lo stesso schema che negli anni lo ha reso Pomeriggio 5, l’estetica dursiana, il clamore mediatico, la morbosità, la giustapposizione di temi rosa e neri che si trovano fianco a fianco nello stesso flusso narrativo della diretta e le inevitabili accuse di sciacallaggio che arrivano a pioggia di fronte a immagini così esplicite.
tra ossessione e deontologia
La confessione di matricidio di Lorenzo Carbone, che si inserisce tra un servizio su Chiara Ferragni e un commento alle vicende della casa del Grande Fratello, è un momento di televisione che ci riporta alla tradizione sempre in auge dell’ossessione dei media, vecchi e nuovi, per la cronaca nera. Che si tratti di podcast, di romanzi, di spettacoli teatrali, programmi radiofonici, sia che la chiamiamo true crime o Un giorno in pretura, la sostanza è la stessa.
Ma l’azzurro dello studio e il rosa delle grafiche ci riportano con la mente a quei collegamenti da Avetrana – che sono già diventati una serie per Disney+ dal titolo emblematico Qui non è Hollywood – ai ritrovamenti di cadaveri in diretta, anche se lì non eravamo nel salotto di Barbara D’Urso ma nello studio di Chi l’ha visto, altra rete altra storia, e alla mai risolta questione deontologica sulla quantità di informazioni e intromissioni che il giornalismo ha diritto di avanzare in casi come quello di Carbone.
E mentre Myrta Merlino e il suo Pomeriggio 5 ritornano allo stato originario del format, alla ben nota disposizione tra il sensazionalistico e il grottesco che con forza veniva imputato alla sua predecessora ma che, evidentemente, ha più a che fare con la forma in sé, tutto intorno, non solo su Canale 5 ma anche nelle altre reti, private e pubbliche, la televisione scava per trovare altre sacche di passato dentro cui rifugiarsi.
Tra Amadeus e De Martino
Se sul canale di punta di Mediaset tornano i grandi classici defilippiani e si raddoppiano i programmi come Temptation Island, Amadeus inaugura il suo approdo sul NOVE con una bella passata di tradizione televisiva vecchia scuola in un canale che, fino a prova contraria, dovrebbe essere il simulacro del futuro: americana, giovane, smart, così rivoluzionaria da aver preso e rimontato fedelmente il tavolo di Fazio come un pezzo di archeologia al museo del Pergamon.
La versione Discovery di I soliti ignoti, Chissà chi è, è una copia perfetta dell’originale, con l’aggiunta di qualche nuovo termine come «cannocchialone» al posto di «binocolone». La serata di musica Suzuki Music Party, al netto della scenografia da X Factor e della disposizione dei tavoli da intervista a metà tra la radio e un podcast, è una succursale del suo Sanremo, dove tutti gli artisti e le artiste della kermesse targata Ama si ritrovano per raccontarsi quanto era bello stare insieme all’Ariston.
Nel frattempo, la guerra fredda Conti-Amadeus si consuma a colpi di annunci al Tg1, mentre Stefano De Martino scarta pacchi da trecentomila euro ad Affari tuoi per dimostrare che anche lui, col passato, ci sa fare benissimo. Così bene da sostituire lo smartphone con un telefono del secolo scorso.
Pochi giorni fa, all’età di novant’anni, è morto Fredric Jameson, il critico e intellettuale marxista più importante della tradizione statunitense. Tra le tante cose preziose che ha scritto, il suo saggio sul postmodernismo è diventato una guida imprescindibile per la comprensione dei mutamenti culturali che sono avvenuti in Occidente a partire dagli anni Ottanta in poi, quando il there is no alternative ha divorato qualsiasi istanza rivoluzionaria che si ponesse come scelta altra dal sistema neoliberale, facendo piombare la modernità, nella sua manifestazione sintomatica che scinde struttura da sovrastruttura, in uno stato di stallo.
Tutto si ripete ironicamente, nostalgicamente, passatisticamente, senza la prospettiva del futuro se non di quello che imita sé stesso all’infinito, riproducendo le stesse forme in una rimescolanza di segni e simboli già noti. Sempre negli scorsi giorni, la notizia che a Striscia la notizia ci sarebbe stato un velino uomo, venduta dalla stampa come grande novità, è stata accolta tra ilarità e stupore.
In realtà, di velini a Striscia ce ne sono già stati diversi nel corso dei trentasei anni di questa trasmissione, che resta sempre là, cambiando senza cambiare, esattamente come tutto il resto della televisione, compresa quella del dolore.
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