I giardini sono dei paradisi, ma ogni paradiso è un luogo da cui qualcuno viene cacciato. Questo assunto è molto chiaro a Olivia Laing, critica e giornalista. Lei ha inseguito giardini fin dall’infanzia, desiderando di averne uno più di una casa vera.

La sua vita prima del matrimonio con il poeta Ian Patterson è stata itinerante, e i lettori più affezionati sono abituati a ritrovare all’interno dei suoi libri questa o quell’altra fase: la studente di erboristeria, l’attivista ambientale. La ragazzina con i genitori separati, che vive con la madre e la nuova compagna della madre nell’Inghilterra post-Thatcher di John Mayor, intrisa di omofobia. Quella stessa ragazzina che quando alla madre viene fatto outing dal vicinato lascia insieme alla famiglia il paese in cui abita, di cui ricorderà sempre il magnifico giardino dietro la scuola delle suore.

Di questo e di tanti altri soprusi, ma anche di utopie e di paradisi possibili parla il suo ultimo libro, Il giardino contro il tempo, pubblicato dal Saggiatore nella traduzione di Katia Bagnoli. Un titolo che risuona particolarmente oggi, con l’urgenza di contrastare il tempo mentre la crisi climatica avanza inesorabile. E un giardino è il punto da cui partire per riflettere su questo: come scrive Laing, piantare qualcosa è pensare al futuro. È suggellare un patto su come il mondo dovrebbe ricominciare a essere.

Nascondere il male

Il libro comincia quando, a più di quarant’anni, Laing compra una casa con il marito, nel Suffolk: l’edificio ha uno splendido giardino in rovina, progettato negli anni Sessanta da un giardiniere pluripremiato, Mark Rumary. Il suo obiettivo diventa restaurarlo, scoprire cosa è ancora vivo sotto i rami morti dei rampicanti, o cosa non è marcito all’ombra di siepi cresciute troppo. Quello che capita, nello stesso periodo, è la pandemia di Covid-19. Nel momento in cui avere la disponibilità di uno spazio verde come valvola di sfogo fa la differenza in una situazione di isolamento totale, Laing si ricorda molto presto che i giardini non sono solo sogni, ma una questione di classe.

Come nelle sue opere precedenti, Laing si collega alle storie altrui partendo dalla sua esperienza diretta. Dalle sue giornate che cominciano prima dell’alba, a studiare i germogli, a rivangare, a strappare stralci di edera defunta, allarga lo sguardo e abbraccia tutti i paradisi perduti che le vengono in mente, da John Milton in avanti, passando per il regista Derek Jarman, che realizzò un giardino «impossibile» di sole piante autoctone vicino a una spiaggia di sassi, a cui lavorò fino alla morte avvenuta per Aids nel 1994. In un’intervista ad AnotherMag Laing ha detto, da persona non binaria cresciuta in una famiglia queer all’epoca delegittimata dalla clausola 28 (un emendamento thatcheriano che proibiva la «promozione» dell’omosessualità), di condividere l’urgenza di Jarman di giardino che sia un luogo sicuro, ma anche di piacere e divertimento, senza confini e collaborativo.

Nella sua ricostruzione ci sono poi i terreni inglesi, privatizzati tra settecento e ottocento attraverso il sistema delle enclosure: diversi contadini, la cui sopravvivenza dipendeva dalla terra che lavoravano, avevano dovuto reinventarsi operai. Ma ci sono anche le splendide tenute immerse in ettari e ettari di verde (privato) che sono parte integrante dell’immaginario britannico: non molto lontano dalla casa della stessa Laing sorge Shrubland Hall, il cui parco fu portato ai massimi splendori dalla famiglia Middleton di Crowford, che si era arricchita con il commercio di schiavi in America. In giardini come questo, Laing indovina l’ombra del colonialismo occidentale: non solo per il trasferimento forzato di piante esotiche da ecosistemi diversi, ma anche per il costo umano che c’è dietro.

Sempre nell’intervista ad AnotherMag, Laing ha osservato che i Middleton (del baronetto William Fowle Middleton) le ricordano la famiglia Sackler, proprietaria di Purdue Pharma, la società che brevettò l’OxyContin (cioè l’ossicodone) e lo spinse sul mercato nonostante provocasse dipendenza. Oggi si parla di un’epidemia degli oppiacei, per quanto è alto il numero di morti legate alla dipendenza da ossicodone e fentanyl.

Il documentario Tutta la bellezza e il dolore di Laura Poitras, vincitore del Leone d’Oro a Venezia nel 2022, segue proprio le proteste organizzate dalla fotografa Nan Goldin e dal suo gruppo di attivisti perché le istituzioni culturali finanziate dai Sackler tagliassero i loro legami con la famiglia.

Donare soldi ai musei e all’arte è come il parco di Shrubland Hall: la bellezza viene utilizzata per nascondere un orrore. E qui Laing mette in discussione lo stesso concetto di bellezza: «Non è una virtù che si può coltivare a costo zero», scrive nel suo libro.

La zona d’interesse di Jonathan Glazer mostra lo stesso meccanismo: non ha trovato spazio nel libro, ma Laing lo cita alla Lettura. Accanto al campo di concentramento di Auschwitz, il personaggio interpretato da Sandra Hüller coltiva un giardino con una varietà di fiori e piante impressionante. Sullo sfondo del suo gazebo nel verde, il fumo giallo che esce dai forni crematori. Di nuovo, la terra è un paradiso da cui le persone vengono cacciate.

I ribelli

Quindi cosa può essere bello? Ai giardini degli sfruttatori si oppongono i giardini degli ideali. L’artista William Morris ha riempito le case inglesi con le sue stampe e le sue tappezzerie: fiori che si intrecciano, mondi fiabeschi che si affacciano dalle pareti di casa. È considerato uno dei padri del design industriale, anche se lui personalmente rifuggiva il concetto di industriale, e costruì anche dei giardini.

Tra i primi socialisti, nella sua concezione questi spazi «costituivano il centro della sua visione su una possibile trasformazione della società». Una bellezza che è condivisa e accessibile a tutti. Per Laing quello che progettava Morris era una sorta di stato-giardino: «un’ecologia fatta di incontri di specie diverse di stupefacente bellezza e completezza, mai statica, sempre in movimento, graduale e prolifica». Una visione che non si è ancora realizzata, e per cui il tempo a disposizione potrebbe essere troppo poco.

Per tutta la durata della pandemia, Laing si è chiesta se stesse lavorando in una bolla. Accanto ai progressi del suo lavoro arrivavano le notizie dal mondo: il numero dei morti, poi le elezioni statunitensi, l’assalto al Campidoglio. Ma un giardino per quanto delimitato non è uno spazio chiuso: è sempre in connessione con l’esterno, con cui avviene uno scambio. È un luogo che può essere ribelle, come il parco di La Foce in Val d’Orcia, che in tempo di guerra ospitò bambini sfollati e nascose prigionieri inglesi agli occhi dei tedeschi.

La storia della proprietaria di La Foce è esemplare in questo perché, a differenza di Morris, Iris Origo non era una socialista, non aveva rivoluzioni da portare avanti: era una ricca signora, con una visione, figlia del tempo e della sua educazione, un po’ paternalista delle classi a lei inferiori. Laing si limita a indicare questi dettagli: non è alla ricerca di una purezza ideologica.

La fine di una trilogia

Laing ha più volte detto che il Giardino contro il tempo è l’ultimo capitolo di un’ideale trilogia che comprende due dei suoi testi precedenti, Città sola e Everybody. Il primo traccia una mappa della solitudine unendo le vite degli artisti che hanno vissuto l’isolamento e lo stigma dell’Aids a New York, tra cui David Wojnarowicz, che fu amico anche della già citata Nan Goldin (le connessioni sotterranee si moltiplicano, quando ci si approccia al lavoro di Laing). Il secondo parla dei corpi: di chi ci si è sentito intrappolato dentro, di chi ha raccontato la malattia, come Susan Sontag, di chi ha usato il corpo come strumento di rivendicazione, come la stessa Laing, che nei suoi anni da attivista ambientale si arrampicava sugli alberi per protesta.

Città sola è uscito per primo, e si pone idealmente agli opposti del Giardino: un dedalo di strade urbane e grattacieli da una parte, la natura dall’altra. La ricerca di connessioni umane contro la sensazione, nel giardino, di non essere mai sola. Questo libro è un punto di arrivo, una liberazione: alla domanda che la corsa contro il tempo pone, arriva la risposta che in un giardino il tempo è diverso. È sempre presente, e mantiene la vita e la morte nello stesso istante. Non ha più senso per lei cercare l’Eden. Quello che ha imparato negli anni più precari della sua vita è che ovunque vada vale sempre la pena di costruirsi un giardino temporaneo.

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