Dalla famiglia si esce morti o assassini, metaforicamente ma qualche volta in senso letterale. Contro le retoriche edificanti e conservatrici, tanto in voga nelle destre contemporanee, è questa l’intuizione risvegliata da Familia, opera seconda di Francesco Costabile, nelle sale in questi giorni dopo la presentazione al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti.

Ispirato alla vicenda di Luigi Celeste, raccontata nel libro Non sarà sempre così (Piemme), che a 23 anni, dopo una vita di maltrattamenti e umiliazioni, uccise il padre per salvare la madre e il fratello, il film già nel titolo recupera la matrice originale dell’idea di famiglia. Quella che riporta all’antica Roma e al pater familias come proprietario di moglie e figli: un’idea velenosa, immorale, eppure pervasiva nella nostra cultura, un dispositivo di potere spacciato ancora oggi, da molti, leader politici inclusi per paradigma etico fondamentale.

Il punto di vista

Ci sono tanti modi per parlare di violenza di genere, con un cast attoriale felice per estetica e performance (Francesco Gheghi, Barbara Ronchi, Francesco Di Leva, Marco Cicalese, Tecla Insolia) Familia lo fa assumendo il punto di vista dei più piccoli, dei figli (maschi) di padre tiranno, esplorando detti e non detti di una casa infestata, in cui la violenza è onnipresente, dilagante anche quando non viene mostrata direttamente.

«Quando ci sono i rumori dobbiamo aspettare», si dicono i due bambini, Gigi e Alessandro, all’inizio del film, nascosti al buio in cameretta mentre nell’altra stanza tuona, di nuovo, l’orrore. E la prospettiva è subito quella, ancora poco compresa, della violenza assistita, dell’assetto ultra-traumatico in cui si è costretti a crescere quando vedi tua madre – o tua nonna, tua sorella – subire l’accanimento dell’uomo di casa (a furia di pugni in faccia la madre di Luigi Celeste perse i denti, particolare che nel film torna a rimarcare l’annichilimento fisico e morale).

Francesco Costabile s’inabissa nella verità emotiva dell’abuso ricombinando generi e codici: Familia utilizza il repertorio del cinema italiano ibridandolo con una sensibilità gotica, da racconto del terrore. Tutto è avvolto nell’ombra e il fuori campo è centrale, in questo film ambientato nella periferia degli anni Novanta (romana, mentre nella realtà la famiglia Celeste viveva a Milano), che attinge dai simboli della nostra cinematografia, di un immaginario popolare che è anche quello di tanti film per famiglie e pubblicità celebri, ma lo fa per smascherarlo, per rivelare la realtà infernale di certi presepi della sopraffazione.

La fiction si squarcia e gli stilemi da film horror esplodono, come a rivelare il dato di realtà. Chi ha conosciuto la violenza domestica sa, ad esempio, come la tavola, il mangiare insieme, possa rivelarsi più una miniatura mostruosa che un simbolo di unione e armonia, lo scenario dinamitardo in cui la tensione monta e raggiunge il punto di rottura, il setting in cui il corpo impara a nutrirsi di ansia e dolore.

La violenza è complessa

Oggi si parla tanto di violenza di genere ma – anche comprensibilmente – lo si fa da una prospettiva molto razionale, controllata, binaria: l’arte ci ricorda invece come le cose siano spesso molto più complicate, ambigue, invischianti. Il male lascia segni ovunque: tutto il film è giocato su una scissione del sentire, sulla confusione tra bene e rischio mortale, attaccamento e oppressione, amore e umiliazione.

Le vittime sono imperfette, ovvero molto più simili alle vittime della vita reale che alle narrazioni formato Instagram: moglie e figli riaccolgono il carnefice, gli rinnovano la fiducia, credono alla sua redenzione. E l’abusante, a sua volta, è efferato e insieme premuroso, buffo, irresistibile. In questa bufera logorante di input incoerenti le categorie morali collassano le une sulle altre, e proprio quando servirebbero di più. Lo fanno mentre si diventa adulti, mentre i bambini diventano giovani uomini, e così la deformazione rischia di farsi permanente. Gli studi di chi si occupa di questi temi dicono che la violenza assistita lascia danni di entità pari a quelli della violenza subita direttamente.

Lo stato rivela tutta la sua inadeguatezza in questo film, così come nella vicenda reale a cui si ispira: gli interventi delle autorità sono blandi, distratti o fuori tempo massimo. Le denunce non servono a nulla, così come i divieti di avvicinamento, il carcere, le residenze segrete. In certe storie di abuso, come questa, il male sembra muoversi lungo una spirale irreversibile: simile alla forza di gravità, è un processo che nessuno pare poter arrestare.

Catarsi nera 

Gigi, il figlio che non accetta di subire, a un certo punto inizia una corsa che termina davvero solo molti anni dopo, con l’irreparabile: se sei sotto attacco, e nessuno ti viene a salvare, magari provi a salvarti da solo. E il modo in cui lo fai non è detto che tu possa sceglierlo. Familia è un film importante perché esplora con audacia ma anche tenerezza alcuni dei nodi più nefasti della cultura italiana, tutte quelle le narrazioni del sangue e del possesso – “i miei figli”, “mia moglie”, “vostro padre” – che sono un feticcio retorico letale, formidabile nel sottrarre dignità, salute, futuro, specie a donne e minori.

È una catarsi nera, pienamente tragica, quella del film: i personaggi di questa storia si trovano in un punto del mondo impermeabile al bene, una terra di nessuno in cui sembra non poterci essere giustizia, ma solo l’annientamento di sé o di chi, ci dicono, per antonomasia, dovrebbe amarci e proteggerci.

Gigi Celeste vede l’abuso, impotente, e cova una rabbia che, a vent’anni, lo porta a militare nella X Mas. Il suo corpo si infila in un’armatura di muscoli, svastiche, tatuaggi, cicatrici da rissa: nella cultura fascista trova una caricatura, folle ma a suo modo confortante, del maschile, del padre mai avuto. Il trauma lo rende carnefice: ferito, ferisce.

Imprigionato nel conflitto perenne, sul suo caos emotivo si installa un sistema di disvalori grotteschi e totalitari, un vitalismo mortifero che supporta l’anima smarrita con le leggi del branco: da questo punto di vista il film è anche uno sprofondamento nelle radici psicologiche di certe subculture che, fino a qualche anno fa, avremmo detto ormai in via di estinzione, e oggi sono invece in crescita. Mostra con sensibilità e coraggio l’educazione all’odio, le sue ricompense, il tipo di incastro patologico a cui risponde.

Fuori dagli schemi 

«Nessuno abbraccia l’odio volontariamente», ripete spesso il vero Luigi Celeste, che ora, dopo nove anni di carcere, è un esperto di sicurezza informatica. E aggiunge: «La vita dipende dal contesto in cui nasci». Siamo poco propensi a calare il giudizio morale, e le sentenze dei tribunali, nella contingenza degli ambienti e delle storie concrete: lo vediamo ogni giorno, nei casi di cronaca nera, da Alessia Pifferi a Olindo e Rosa della strage di Erba (come ben racconta Alessandra Carati in Rosy).

C’è un’ambivalenza dell’esperienza umana che troppo spesso viene liquidata per rassicurare il nostro bisogno di fazioni, schemi morali chiari. Torna in mente anche il caso di qualche anno fa di Santa Morina, donna siciliana anche lei condannata al carcere dopo l’uccisione del marito torturatore. Viviamo in un paese in cui le vittime troppo spesso vengono lasciate sole, e si trovano a dover scegliere se soccombere o oltrepassare la linea, e diventare a loro volta qualcosa meno che esseri umani.

Chi dovrebbe guidare, ispirare, proteggere, spesso preferisce il potere, il consenso, lo status quo: rinforzare le retoriche tradizionali della sacralità dei vincoli naturali, eteronormativi e sessisti, aggravando gli stessi problemi di sempre. Oppure, sui social network, si sfrutta la causa per posizionarsi, diventare il brand di sé stessi, con slogan e ricostruzioni che occultano le opacità e non si confrontano mai con le contraddizioni che affollano i nostri desideri, le nostre vite.

«Non ce ne libereremo mai», dice la madre di Luigi Celeste a un certo punto, parlando del marito, e lo spettatore non pensa che esageri. È vero, sappiamo che la donna, di nuovo piena di lividi, ha ragione: l’uomo determinato a stroncare la vita della compagna, o dei figli, intenzionato a uccidere, è quasi sempre lasciato nelle condizioni di farlo. La scelta, nei fatti, è ancora quella di questo film ambientato negli anni Novanta, tra televisioni sintonizzate su Bim Bum Bam e hamburger con la sottiletta: lasciarsi ammazzare o diventare assassini, nel vuoto pieno di chiacchere dei politici, delle forze dell’ordine, di certi attivisti digitali schiacciati sugli algoritmi e i loro modelli di business.

È un film a tratti insopportabile, Familia, perché unisce tutti quei punti che l’inettitudine e l’ipocrisia del nostro mondo spesso eclissa, o non collega a dovere. Un film doloroso e radicale, che non consola, non banalizza, non accarezza le nostre coscienze fiacche e privilegiate. E proprio per questo un film a cui si torna, nei giorni, nelle settimane, a mo’ di monito, sigillo, appunto morale.

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