Cappotto nero – fa freddo questa sera sul lago di Como –, occhiali con lenti azzurre, capelli d’argento legati in una coda. Guido Harari scorre le dita sul suo smartphone per mostrarmi le fotografie dell’amico Frank Zappa, ma pure quelle di una coppia di ottantenni che volevano un suo ritratto e il marito d’improvviso si è messo dietro la moglie e le ha strizzato i seni nelle mani, ridendo. Ne ride anche lui, e spesso sorride a chi è in questo club di musica, il Nerolidio, per ascoltare della sua vita. Tutti sembrano incuriosirlo. Parrebbe che 50 anni a incontrare persone non gli abbiano riempito la memory card, che ci sia ancora spazio.

Potremmo fare un’intervista di aneddoti sulla sua carriera di fotografo di rockstar e miti…

Se vuole sì.

Potrei chiederle per esempio come è successo che è diventato amico di Lou Reed…

Non sempre le cose accadono per meriti particolari. Ho vissuto la mia frequentazione di Lou Reed scegliendo di viverla nel presente e non fossilizzato all’ombra della leggenda. Gli artisti non guardano mai indietro, questo l’ho imparato presto: sono perennemente catapultati in avanti. Se si sceglie di accompagnarli verso nuove avventure può capitare di essere accolti nel loro cerchio magico. È anche importante capire quando la macchina fotografica è solo di intralcio. Ho sempre privilegiato lo sviluppo di una relazione. Così anche con Frank Zappa.

Come è andata con lui?

A vent’anni Zappa era uno dei miei miti assoluti. Il primo incontro nel 1973. Muovevo i primi passi come fotografo e giornalista nell’ambiente della musica, ero impacciato. Mi fulminò subito invitandomi a spegnere il registratore se desideravo diventare suo amico. Dieci anni dopo ero con lui a Los Angeles per un servizio per L’Uomo Vogue e mi mostrava il bunker scavato sotto la sua casa, con migliaia di nastri e video dei concerti, chitarre, dischi e oggetti del suo passato.

Ha poi scattato ritratti a Santana, Bob Dylan, Wim Wenders, Vasco Rossi, Paul McCartney, Simple Minds, Ennio Morricone…

Ah, il maestro Morricone quel giorno non aveva tanta voglia di farsi fotografare. Pensando di farmi un dispetto, si nascose dietro la porta del suo studio, mostrando soltanto metà del corpo, lasciando come sospesi a mezz’aria i suoi inconfondibili occhiali. Una foto inedita grazie a un’involontaria complicità.

C’è stato chi l’ha intimidita?

Con Eric Clapton ebbi una specie di blocco completamente irrazionale. Con Fabrizio De André sentii il peso della sua cultura infinita di fronte alla quale mi consideravo inadeguato. Son un timido per natura.

Non si direbbe.

Ho inseguito per anni con la mia macchina fotografica vecchi miti e giovani promesse, spesso da sfacciato, cercando e trovando nella dimensione del ritratto un antidoto alla mia timidezza di fondo. La stessa di Tracy Chapman che in un pomeriggio milanese di promozione discografica fece di tutto per sfuggirmi. Uno degli inseguimenti più lunghi, anni, quello a Vittorio Gassman: mi finsi un fotografo anonimo a una conferenza stampa e riuscii a immortalarlo in uno dei miei ritratti preferiti.

Per scattare però ora una sua istantanea: mi sono immaginata una vita di picchi di adrenalina.

Una specie di bulimia da cui a un certo punto ho sentito il bisogno di disintossicarmi.

Quando è successo?

Già negli anni ‘90 volevo prendere le distanze dal can can dei servizi fotografici con le celebrities. Mal sopportavo le moine e certi rituali imposti da agenti, manager, uffici stampa. Occorreva scattare più situazioni per riempire pagine di giornali senza occasioni di approfondimento. Avevo bisogno di un tempo lento che ho trovato nella realizzazione di diversi libri, per me una diversa forma di fotografia.

Quindi ha detto basta?

Qualcosa si è incrinato mentre mi ero lanciato nel progetto di una nuova mostra, Italians. Per tre anni ho girato l’Italia come una trottola, realizzando circa 140 ritratti. Nel 2000 ho finalmente lasciato Milano e mi sono trasferito ad Alba, nelle Langhe. Affascinato dalla luce e dai paesaggi, ho poi conosciuto lì Cristina, la mia compagna. E non c’è più stato ritorno. Ad Alba abbiamo fondato una galleria, Wall of Sound, dedicata all’immaginario della musica.

In giro per il mondo riusciva a fare ogni tanto reset?

Più e più volte, ma sempre con un filo rosso che legava tutte le fasi del mio percorso: dalle copertine di dischi al lavoro per i giornali, dai libri alla galleria e alle mostre, fino ai ritratti nella "Caverna magica". Un progetto nato solo due anni fa, un set fotografico creato nella mostra Incontri dove chi lo desidera può prenotarsi per un ritratto che verrà esposto. Con le celebrities è improbabile scendere in profondità nel loro animo. Più facile è invece con le persone reali (spesso le chiama così, forse senza accorgersene, ndr). Nella "Caverna" il reset è inevitabile: ogni persona è diversa e io non ho mai voluto cadere nella trappola di un stile riconoscibile.

Perché vuole essere sempre nuovo?

Perché per me il ritratto è l’incontro con il soggetto e con me stesso. Una sfida a scardinare ogni sovrastruttura per aprirci insieme a qualcosa che ha più a che fare con l’immaginazione. Non ho mai capito se sono le persone a fare da specchio a me o viceversa, poco importa. È sempre un’occasione per scoprire qualcosa anche di me.

Per…?

Per superare i miei limiti, come un atleta, e mettermi in ascolto del prossimo. Tutto è impermanente, e con la fotografia – sembra banale a dirsi ma è così – si cerca di fissare qualcosa che già nel momento in cui lo si inquadra, non c’è più.

Questioni serie.

Non intendo fare psicologia d’accatto. La fotografia deve essere sempre un gioco. Serve tanta ironia.

Sembra quasi piacerle di più scattare con le non-celebrità, sbaglio?

Credo sia sempre stato così, ora la cosa sta prendendo una piega più matura, che – non senza mia sorpresa – sta suscitando l’interesse anche dell’associazione Jonas, di Massimo Recalcati, che è rimasta incuriosita da come costruisco il rapporto con il soggetto in un tempo molto concentrato: nell’ora che dedico ai ritratti nella “Caverna”, mezz’ora è dedicata a conoscersi. Ma le assicuro che ho sempre considerato le celebrità persone “normali”, da Patti Smith a Peter Gabriel. Non mi interessano le maschere.

Nella seconda parte della sua vita, quindi, i libri.

Immerso in progetti a lenta combustione, sì. Ho speso cinque anni su Bestemmia, su Pier Paolo Pasolini, con la nipote Graziella Chiarcossi. Altri tre anni li ho dedicati a Gaber. L’illogica utopia e Quando parla Gaber (tutti per Chiarelettere, ndr). Con Dori Ghezzi sono stato il primo a mettere le mani e a cercare pepite della vita di Fabrizio De André nei suoi borselli, nelle valigie e nelle giacche, prima ancora che nascessero Fondazione e archivio. Ne sono usciti quattro libri su Faber, importanti per me tanto quanto il lavoro con Fernanda Pivano per The beat goes on e il più recente e tenero, Jannacci arrenditi!.

Mi ha fatto i nomi di coscienze critiche del Paese.

A parte brevi cronologie e introduzioni ho scelto di lasciare la parola a loro. Il pensiero - penso al Gaber di E pensare che c’era il pensiero - ormai evapora. Pasolini diceva: «Può la coscienza salvare?». La mia domanda è: «C’è ancora qualcuno che voglia salvarsi?». Mi pare che siamo sempre più una minoranza.

Cosa la indigna?

Il processo di autodistruzione attivato dall’uomo negli ultimi 100 anni. Sto leggendo Nexus dello storico mio omonimo, Yuval Noah Harari: ci sono temi ignorati da troppo tempo, dall’emergenza climatica alle multinazionali del cibo, che si stanno avvitando tra loro, compreso l’avvento dell’intelligenza artificiale. Tutto questo non solo mi indigna, mi devasta.

E cosa teme?

Lavorando sul pensiero di Gaber ho divorato un libriccino che consiglio: La morte del prossimo dello psicanalista junghiano Luigi Zoja. In copertina recita più o meno così: i comandamenti dicevano di amare Dio e il prossimo e già per Nietzsche Dio era morto. Oggi non abbiamo più nessuno da amare, domina la lontananza. Ricordo che già nel 1970 l’album Usa Union del bluesman John Mayall proponeva un decalogo ambientalista, rimasi molto colpito. Sono passati più di cinquant’anni, colpevolmente l’uomo non ha voluto imparare nulla.

È pessimista?

Più realista che pessimista. Salvo miracoli, non c’è ritorno dai danni che l’uomo – preso da una sorta di infezione psichica come la definisce Zoja – ha inflitto a questo Pianeta. La scienza e la tecnologia hanno fatto passi da giganti, è vero, ma il fattore tempo non è a nostro favore.

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