Con le parole si può sostenere una tesi ma anche la tesi opposta, si può usare una retorica seria per elogiare la polvere o la mosca; solo Socrate si oppone e insiste a usare la parola per arrivare alla verità. A forza di estremismi e provocazioni, si arriva all’eccentrico risultato che proprio i sostenitori di tradizione e ordine si ergono a difensori del free speech
«La parola “cane” non morde»: pur fissando pragmaticamente una netta distinzione tra aggressione fisica e aggressione verbale, i sofisti greci del V secolo non sottovalutavano il potere della parola – Gorgia sostiene che Elena può essere considerata innocente sia che Paride l’abbia rapita con la forza, sia che l’abbia convinta con discorsi appassionati; ma alla fine del suo encomio riconosce di essersi soprattutto divertito in un «gioco dialettico».
Con le parole si può sostenere una tesi ma anche la tesi opposta (Elena innocente o invece colpevole di aver scatenato la guerra di Troia), si può usare una retorica seria per elogiare la polvere o la mosca; solo Socrate si oppone e insiste a usare la parola per arrivare alla verità.
Nella linguistica novecentesca di marca saussuriana, la frase con cui ho iniziato questo pezzo è citata a esempio della arbitrarietà del segno: “cane” in latino è l’imperativo del verbo cantare, l’animale che morde in inglese si dice “dog” – nei nostri alfabeti occidentali nessuna lettera o parola (tranne le onomatopee) somiglia all’oggetto che definisce. Uniche eccezioni la poesia e l’oratoria, o l’arte letteraria in genere, che coi suoni e perfino con l’aspetto della pagina suggestionano il lettore e lo avviano verso un certo modo di interpretare le cose.
Lagioia e Tony Effe
Queste ovvietà storico-linguistiche mi sono saltate in mente di fronte a due fatti che sento oscuramente connessi: la querela che il ministro Giuseppe Valditara ha sporto contro Nicola Lagioia e il “disinvito” di Tony Effe dal concerto romano di Capodanno. Due vicende lontanissime tra loro e di diverso segno politico, la prima a opera della Destra e la seconda della Sinistra.
Lagioia ha ironizzato in tivù su un post del ministro sostenendo paradossalmente che, se ci fosse un test per i migranti teso ad accertare la loro buona conoscenza dell’italiano, forse Valditara non lo supererebbe. (In verità la lunga frase del post non era poi così scombinata, sarebbero bastati una virgola e un futuro al posto di un congiuntivo per renderla complessa ma chiara). Era una battuta pungente e questi sono tempi duri per le battute.
Tony Effe invece è stato escluso dal concerto perché alcuni suoi testi contengono parole che offendono la dignità femminile: senza considerare che nella trap nostrana queste espressioni scopiazzano la trap made in Usa e appartengono al medesimo rango epigonico delle pastorellerie arcadiche nel Settecento. (Tant’è vero che lo stesso Tony Effe si offre con qualche patetico dubbio allo stereotipo, mimando un dongiovannismo da strapazzo). Entrambe le vicende sono a tutt’oggi ancora aperte: ci si augura che il ministro Valditara (in un soprassalto di senso delle istituzioni e senso dell’umorismo) ritiri la querela, mentre Tony Effe ha annunciato un controconcerto al Palaeur proprio il 31 dicembre.
Libertà di parola
Interessa di più il tema generale, che è quello delle due direzioni da cui giungono gli attacchi alla libertà di parola. La Destra ha l’ossessione del sentirsi offesa, la sua reazione è dall’alto verso il basso, tende a prendere le critiche come insulti e intimidisce con gesti di imperio; la Sinistra ha il terrore di offendere, vuole proteggere i gruppi deboli e sistemicamente oppressi, teme che l’uso di certe parole marcate da secolare ingiustizia favorisca il permanere di ciò che le ha fatte nascere. Non si sottrae a posizioni che rasentano e talvolta raggiungono il ridicolo – nell’ansia di prevenire il disagio di alcune categorie, abbandona il vecchio sogno illuminista dell’uguaglianza.
Le sacrosante parole di Albert Einstein («esiste solo una razza, la razza umana») sono considerate offensive se viste dal punto di vista di chi ancora oggi è costretto a subire una “razzializzazione” inconscia e strutturale. Da una parte e dall’altra, libri vengono mutilati o proibiti; da Destra per non insinuare nella testa dei ragazzi concetti pericolosi, da Sinistra per educare al rispetto. (“rispetto” è la parola che si gettano in faccia a vicenda).
I “disinviti” sono ormai pratica costante nelle università e nelle rassegne librarie, i comici sospetti di parresia sono malvisti tranne che in ghetti a loro riservati. A forza di estremismi e provocazioni, si arriva all’eccentrico risultato che proprio i sostenitori di tradizione e ordine si ergono a difensori del free speech.
Safe spaces
In molti atenei americani (ma la cosa si sta diffondendo in Europa) esistono dei safe spaces, cioè dei luoghi protetti in cui gli studenti possono rifugiarsi se non vogliono ascoltare quei conferenzieri che potrebbero causar loro dei traumi (o, come si dice, delle “microaggressioni”).
Uno studente della Wesleyan University in Oklahoma si è lamentato di essersi sentito «preso di mira» durante una lezione di filosofia, ascoltando le parole di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, perché quel meraviglioso elogio della Carità era come se rimproverasse lui, studente, di non saper amare abbastanza.
Gli studenti americani pagano rette altissime, all’università pretendono di sentirsi “come a casa”, mentre a me pare di ricordare che un tempo ci si iscriveva all’università per evadere da casa.
Molte aziende hanno dei codici di comportamento che correggono il linguaggio in direzione “inclusiva”; fino a quando il portafoglio non le avviserà che il vento è cambiato e che il social adesso più libertario, X, appartiene a uno degli uomini più ricchi e potenti del pianeta. A quel punto scoccherà l’ora del “diciamo quel cazzo che ci pare”, come in un profetico sketch di Corrado Guzzanti sulla Casa delle libertà, dove tutti si sentivano liberi di sputazzare e lasciare cartacce in giro.
Parole e fatti
Stando a una regola basica dell’economia, più cresce l’offerta rispetto alla domanda meno un bene dovrebbe costare; la parola oggi sembra seguire un andamento opposto, più è inflazionata e più acquista importanza. Tutti parlano e straparlano, i social sono peggio di un mercato in una giornata di fiera, in tivù i “cambiamenti culturali” sono invocati prima di ogni spot pubblicitario, la lite parolaia è all’ordine del giorno, a nessuno viene in mente che dopo una settimana tutto svanirà nell’acqua profonda.
È difficile sottrarsi alla sensazione che si faccia un così abbondante uso di parole perché nei fatti non si sa come comportarsi e i fatti decisivi accadono, imprevisti, nel silenzio. La verità non sta nelle parole. B. J. Fogg, che insegna tecnologia della persuasione a Stanford, ha fondato la “captologia” (da Capt, acronimo di Computer As Persuasive Technologies) e dimostra che, nel convincere verbalmente, i computer sono più efficienti degli umani.
Né le parole né i fatti sono più sotto il nostro controllo, ma le parole incontrollate hanno conseguenze meno devastanti. Sembra strano, però le parole che durano sono spesso quelle della religione e della letteratura, cioè parole che si richiamano a istanze superiori (o inferiori) alla quotidiana ragionevolezza – che riconoscono la loro responsabilità su un piano diverso da quello del mercato e del momentaneo potere.
Un sogno anarchico e utopico sarebbe una moratoria di qualche anno, durante la quale ogni parola venga ammessa: compreso l’insulto, la blasfemia, l’incitamento alla violenza, il porno e la pura follia. Per ridimensionare le parole, per coglionare la logomachia e mostrarne la vacuità.
L’autoritarismo ama le parole gonfie, quelle che vorrebbero farsi azione; nel discorso finale di Giorgia Meloni ad Atreju, quando ha detto di sentirsi dalla parte giusta della Storia (la maiuscola era incorporata nel tono), e che se la Storia chiama bisogna esser pronti a rispondere alla sua chiamata, non nego di aver provato un piccolo brivido lungo la schiena.
Perché le parole possono anche essere pietre, Carlo Levi ce lo ha ricordato. Lo aveva imparato da Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale ucciso dalla mafia; durante il processo la madre assistette muta, disse solo che giustizia era stata fatta quando i responsabili furono condannati all’ergastolo; ma in secondo e terzo grado i medesimi imputati furono assolti per insufficienza di prove. Il peso delle parole bisogna meritarselo.
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