PPP porta in giro i propri occhi, come fanno tutti gli scrittori. Ricarica come un orologio antico la meraviglia, riposiziona l’emozione al grado zero così da vedere le cose per la prima volta. Con tutti i suoi limiti, in India come a Ischia, riesce a conservare lo sguardo di bambino che vuole sentire prima di conoscere
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
È stato un giorno di intermittenza di ombra e di luce. Nella notte, in termini di pioggia, ci è caduta addosso tutta l’ira di due tra gli otto milioni di dei del pantheon giapponese, i demoni dei fulmini, dei tuoni e del vento Raijin e Fūjin, che hanno messo a soqquadro il giardino di casa, svegliandomi a più riprese per le scariche d’acqua.
I tifoni continuano da settimane a sfiorare Tōkyō e la sua baia in cui dal 25 al 30 agosto è rimasta ormeggiata la «nave più bella del mondo», la nostra Amerigo Vespucci, giunta direttamente da Los Angeles e scesa l’indomani verso Manila. I tifoni di settembre caricano i cieli giapponesi di nuvole e poi le spazzano con velocità immensa, come allestendo e disfacendo un padiglione temporaneo. Sicché, mentre il 27 agosto camminavo verso il Villaggio Italia nella zona di Odaiba, pareva che il sole si accendesse e spegnesse a ogni passo.
Rileggere l’India di PPP
Tra gli eventi organizzati nei giorni di celebrazione del Tour mondiale del veliero, approdato per la prima volta nella capitale, si è svolta anche Polivocale, una tavola rotonda dedicata a Pier Paolo Pasolini e all’influenza che lo scrittore, poeta e cineasta friulano esercita ancora sull’immaginario di artisti contemporanei. Le voci si sono susseguite saltando da Gian Maria Cervo, drammaturgo attivo soprattutto in contesti esteri, a Nicola Verlato, pittore, scultore e architetto italo-americano, dal prof. Roberto D’Avascio (che insegna letteratura inglese presso l’Università l’Orientale di Napoli e storia del teatro all’Università di Salerno) fino ad arrivare alla sottoscritta.
Talvolta alzavo lo sguardo e c’erano i grattacieli di Odaiba, la nettezza architettonica di quella zona letteralmente emersa dall’acqua, la sfera incastrata nell’edificio di una emittente televisiva, il mare frondoso che il vento spingeva verso la riva. Era ipnotico osservare, stagliati sulla parete in faccia al pubblico, i dipinti di Verlato i quali, in una sorta di sfida alla storia, traspongono la storia di Pasolini in scenari storici ulteriori, come l’omicidio di Marlowe e la Roma dell’età dei Gracchi. Se Verlato offriva la sua ricostruzione degli eventi di Ostia, Gian Maria Cervo, invece, emendava più radicalmente gli eventi del 1975, aggiungendo uno scenario caravaggesco e ampliando il discorso attorno a PPP e alla città di Napoli in relazione al mondo globalizzato.
Dopo i due interventi, allacciati da Roberto D’Avascio, egli stesso anello di congiunzione tra la cartografia napoletana e la storia del teatro, ho saldato i palmi, ho teso le braccia verso l’alto, facendo aderire bene l’interno alle orecchie, e mi sono tuffata in quel discorso immenso che è l’influenza ricevuta negli anni da Pier Paolo Pasolini.
Tuttavia, ho subito fatto una premessa, ovvero che, come affermava Roland Barthes «Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama» in quanto ci si ritrova in una posizione incerta: il sentimento è materia fragile e volubile. L’amore per Pasolini deve molto alla complessità di pensiero ed espressione che gli è propria, in quanto è grazie a essa se continuiamo a parlarne a cinquant’anni dalla sua morte.
La complessità è un concetto che mi è molto caro e che sento spesso fuggito nel contemporaneo, un tempo che tende, a braccetto con la tecnologia, a cercare nuove scorciatoie, facilitazioni che sono anche giuste in un contesto pratico e materiale ma che spesso si rivelano controproducenti in un ambito concettuale e astratto. Il valore di un grande autore è invece proprio in questa stratificazione di significati sicché ogni artista – in campi anche tanto diversi – coglie, a partire dalla sua mente rizomatica, uno stimolo, un’idea, una suggestione.
Pubblico romanzi, saggi e libri per l’infanzia da più di dieci anni e tuttavia l’influenza che PPP ha avuto sulla mia scrittura anticipa persino l’ideazione del primo volume. Individuo l’incontro al liceo quando un’insegnante illuminata mi invitò alla lettura congiunta dei racconti di viaggio L’odore dell’India di PPP e di Un’idea dell’India di Alberto Moravia, i quali il 31 dicembre 1960 si misero in viaggio insieme alla scoperta/ riscoperta del paese.
Ognuno venne ingaggiato da un giornale per farne dei reportage: Moravia fu inviato per conto del Corriere della Sera e Pasolini de Il Giorno. Ricostruendo a posteriori l’eredità immateriale del pensiero che ho maturato negli anni, individuo in quella lettura uno dei primi tasselli nel processo di edificazione del concetto di Altrove (ovvero di qualcosa di «altro da sé» da cui scaturisca una pluralità di sentimenti e grazie al quale la scoperta non sia limitata a quanto è fuori ma abbracci anche quanto è dentro di noi, fino ad attuare una sorta di svelamento interiore, l’incontro con una parte nascosta di sé) e del senso di meraviglia (l’incontro con l’Altro – chiunque l’altro sia – che viene perennemente rinnovato dall’occhio dell’autore), concetti che sono entrambi alla base della mia personale visione di letteratura.
Li ritrovai leggendo a ritroso La lunga strada di sabbia (1959), a dimostrazione che il senso di stupore che anima lo sguardo pasoliniano si slega dalla geografia e tocca il mondo più remoto come quello più prossimo con la stessa ingovernabile ingordigia e bramosia.
Rileggendo L’odore dell’India a distanza di anni, dopo l’attenta lettura di Orientalismo (1979) dell’anglista statunitense di origine palestinese Edward Wadie Said e soprattutto dopo la personale esperienza ventennale di vita in un paese straniero (il Giappone), mi è più emotivamente e intellettualmente chiara una certa critica che afferma che la visuale di Pasolini sull’India fosse quella di un turista, di qualcuno che guardava più a sé stesso che all’altro, tenendo sempre il proprio mondo come primo riferimento, con quella parzialità, quell’approccio, che se non si può definire superficiale, certo è poco antropologicamente consapevole.
Sono forse diffuse ne L’odore dell’India di Pasolini, in questo senso, una serie di ingenuità come l’idealizzazione nella differenza tra le popolazioni, la fiducia degli indiani, la tendenza tutta occidentale a vedere il buon selvaggio, a individuare il meglio nell’altro, all’arretratezza industriale come a una condizione di purezza perduta, qualcosa che Dacia Maraini gli criticherà più avanti durante i tanti viaggi compiuti soprattutto in Africa dal trio Pasolini, Moravia, Maraini (e di cui parla in Caro Pier Paolo, Rizzoli, 2022).
Fame insopportabile
Tuttavia, ho compreso nel tempo come la scoperta dell’Altrove necessiti anche di errori, di malintesi, in quanto è il processo stesso della conoscenza che li richiede. Ricordo ancora lo scetticismo provato ascoltando una iamatologa criticare L’impero dei segni di Roland Barthes in quanto «inesatto in termini culturali»; personalmente ritengo che sia proprio il non conoscere la base della curiosità che anima le nostre ricerche e che sia grazie talvolta alla totale mancanza di studi previ che siamo in grado di approcciarci con una freschezza inedita, capace di farci vedere cose che altri, ormai, danno per ovvie. Pier Paolo Pasolini si getta nell’esperienza indiana con tutto sé stesso, apre gli occhi, ovunque li posa come animato da una fame insopportabile.
Ovunque è la tentazione dell’Altrove, il che rivelò alla me adolescente (e tuttora mi conferma) come un’impressione anche superficiale possa essere origine di suggestioni e rivelazioni, di intuizioni altrimenti impossibili. Quella dello scrittore friulano per l’India è una ubriacatura, così come saranno un’ubriacatura tra gli altri l’Africa e la metropoli americana. Si tratta di «sbronze» tutte diverse, non lontane dal concetto di meraviglia che mi è molto caro. È lo stupore dei «due passi», ovvero quelle passeggiate spontanee e allegre che egli fa andando e venendo dall’India al Friuli, dal Friuli alla borgata romana, da Roma all’Italia intera, e in cui va indagando i sentimenti e il pensiero comune, come durante quelle interviste raccolte nel documentario Comizi d’amore (1964).
Era già accaduto tra il giugno e l’agosto del 1959, al volante di una Fiat 1100, quando percorse la «lunga strada di sabbia» da Ventimiglia a Palmi: «Solo, con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia». Nasceva da qui La lunga strada di sabbia, un racconto di viaggio che tocca più tappe e di ognuna ci lascia un racconto, una personalissima descrizione. Soprattutto, come sempre gli accade, Pasolini si innamora della gente: la osserva, la contempla, la interroga e la dipinge. Ciò che lo scrittore insegue ovunque vada è soprattutto l’umanità, la purezza dentro quell’umanità che gli appare tanto più autentica quanto meno è stata intaccata dal boom economico.
La produzione in serie, suggerisce Pasolini, non è un fenomeno che riguarda solo le merci ma anche i sentimenti, il carattere delle donne e degli uomini. L’omologazione è il rischio della società, predicava, anelando all’innocenza come fanno i due bambini dell’opera teatrale del drammaturgo belga Maurice Maeterlinck con l’uccellino azzurro della felicità (L’Oiseau bleu, 1909): appena lo raggiungono e lo toccano, esso svanisce.
La meraviglia
Nell’attacco al brano in cui in La lunga strada di sabbia racconta l’arrivo e l’iniziale impatto con la località di Ischia, Pasolini scrive: «Esco dal mio albergo. Piove ancora un poco. Sono solo. Solo, e porto in giro i miei due occhi, più ingenui e contenti di quel che credessi». Ecco ciò che fa PPP, portare in giro i propri occhi, ed è questo ciò che fa ogni scrittore. Ricarica come un orologio antico la meraviglia, riposiziona l’emozione al grado zero così da vedere le cose per la prima volta.
È lo sguardo del bambino che sa molto, possiede la saggezza dell’infanzia, ma restituisce poco o niente al mondo adulto che gli chiede con ottusa insistenza: «Cosa hai visto? Cosa hai sentito? Cosa hai imparato?» ricavandone un perenne «Niente». Pasolini invece possiede lo sguardo del bambino in cui il «sentire» (to feel) vince sul «conoscere» (to know), alla maniera in cui lo descriveva Rachel Carson (1907-1964), la biologa marina, scrittrice e divulgatrice americana che ha dedicato alla meraviglia un volume intero uscito postumo, intitolato in originale A sense of wonder – e il cui titolo è stato felicemente tradotto in italiano con Lezioni di meraviglia (Aboca Edizioni).
Ovunque è in attesa la meraviglia, imboscata come in un’altra tappa del viaggio di Pasolini per l’Italia, ovvero a Ravello: «non puoi non gridare dalla meraviglia» scriveva. Di questo vocabolario della meraviglia cui tendo io stessa, mi sono accorta scrivendo e rileggendo, soprattutto nella fase di editing, i miei stessi libri, e notando allora l’incidenza di superlativi e termini come pieno, abissi, colmi, strabilianti, aggettivi netti che alzano di un grado la luce e il tono di voce, come obbligando le pupille ad allargarsi e l’attenzione ad alzarsi.
Nel mondo della letteratura, lo scrittore guarda il mondo al posto del lettore, glielo porge perché infine lo veda a sua volta, lo osservi, non gli sfugga. Come un bambino, Pasolini mescola sogno, suggestione, utopia. Tutto d’un tratto brilla, scintilla, grida anche, rilascia splendidi profumi o ributtanti odori di morte e sporcizia. Il suo sguardo oscilla tra gli estremi con meravigliosa grazia proprio come ingiudicabile è lo sguardo di un infante che vaghi sulla miseria, un momento su una bocca sporca per posarsi subito dopo sull’incanto esatto di un fiore o di un’architettura.
Pasolini, con il suo stile che insegue, non dà tregua alla miriade di dettagli in cui inciampa, accusa tutto con vigore e tutto pedina, poi si arrabbia, perdona. Ed ecco nuovamente il parallelo con il mondo infantile: il suo dispendio emotivo nel descrivere i luoghi più remoti come l’India o l’Africa o la provincia italiana, il magico Friuli o la borgata romana dei Ragazzi di vita è enorme. Eppure, ogni volta riprende da capo come se svegliandosi ogni mattina tutto potesse ricominciare.
«L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità –, si vorrebbe morire» scriveva cesare Pavese ne Il mestiere di vivere e, in questo senso, la scrittura di Pasolini è vivissima. Del resto, nei celebri versi iniziali de Il pianto della scavatrice, poesia inserita nella raccolta Le ceneri di Gramsci (1957), scrive: «Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più. [...]». Quel «amare, conoscere» declinati al presente sono precisamente il momento presente, lo star facendo, un tempo continuato, il gerundio, che pare uno spillo puntato a inchiodare il momento esatto che abbiamo davanti. Il passato è secondario, il passato scivola via. L’ora, l’adesso sono il tempo di ogni esperienza.
Testimonianza ne è l’amore di Pasolini per i viaggi e la seduzione immediata, tutta emotiva, per i luoghi di cui finisce addirittura per immaginarsi abitante, pronto a trasferirsi in ogni nuova località e non solo a transitarvi. «Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come con Lawrence a Ravello, ma di gioia». Di nuovo, ecco l’esagerazione di chi pone tutto il peso sul presente. Il senso di meraviglia, lo stupore di Pasolini fanno il giro completo dimostrando come l’approccio all’Altrove che poteva essere giustificato da un paese tanto diverso e lontano come l’India, una delle destinazioni più estreme che c’erano nell’orizzonte al tempo, era già approdato naturalmente nell’Altrove intorno a sé (anche in Italia) e dentro di sé.
Credo che quando lo sguardo si fa opaco, serva tenersi vicino un bambino o uno straniero che del nostro paese si sia innamorato, oppure bisogna leggere le pagine di qualcuno che abbia la capacità costante di riprendere la vita da capo. Ai miei studenti di scrittura creativa spesso racconto il gioco che talvolta ancora faccio di chiudere gli occhi, di immaginare di tornare la me dei nove anni e poi, di botto, spalancarli e cercare indizi del mio essere qui, decenni dopo, viva in un corpo di molto avanzato nell’età e nell’esperienza, dislocato persino in un continente verso cui la bambina che ero non provava alcuna curiosità.
In Pasolini tutto pare accadere per la prima volta, che sia l’India o Ischia, ed è esattamente la complessità della sua poetica, spesso contraddittoria, annodata, perfino in certe occasioni sbagliata, a renderlo uno scrittore capace di parlare ancora ai lettori e agli artisti, che a lui guardano con immutato interesse e voglia di farsi ispirare anche decenni dopo la sua morte.
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