«Do mi sol do do sol mi do, se un buon musicista tu vuoi diventare, tante scale e tanti arpeggi devi far», canta Minou, la gattina bianca e vaporosa de Gli Aristogatti, con voce perfettamente intonata e aria splendida da Maria Callas felina. Al piano è seduto il fratellino nero, Bizet, ai pennelli, intento a dipingere un quadro di cubismo sintetico con le zampette, Matisse, il rosso della cucciolata, mentre la madre, Duchessa, supervisiona soddisfatta questo spettacolo di talento precoce. C’è un non so che di contraddittorio nell’osservare un enfant prodige all’opera, sia che si tratti di animali Disney che di bambini coinvolti sul palco dell’Ariston.

Da un lato, domina la serenità nell'accettare che la natura abbia affidato a qualcuno che non siamo noi lo scettro del picco evolutivo, sollevandoci da qualsiasi responsabilità eugenetica, dall’altro l’angoscia nel chiedersi: «Ma io, mentre Alessandro Gervasi di anni sei imparava a suonare Champagne di Peppino Di Capri al pianoforte, oltre a vantarmi di aver imparato in autonomia a compilare una fattura elettronica, esattamente, cosa ho fatto?».

Nulla, ahimè; la risposta è nulla. Pochi – per non dire pochissimi, una percentuale ridicola – di noi sono Matisse che dipinge quadri degni della galleria D’Orsay senza neanche il pollice opponibile prima ancora di avere il primo calore, ancora di meno sono quelli che all’età in cui si impara l’alfabeto possono vantare il fatto di aver portato a casa un’esibizione sul palco musicale che per antonomasia fa venire a tutti la proverbiale strizza, anche ai più rodati.

Piazzare le pedine giuste

Carlo Conti ha preso questo festival col pilota automatico, televisivamente parlando, e non è un male, nonostante alcuni lamentino la freddezza frettolosa della sua conduzione. Non ha scelto di essere affiancato da figure randomiche – un aggettivo a lui caro in questa edizione –, ma da persone che hanno fatto e che fanno questo mestiere, professionisti del fu tubo catodico, evitando l’effetto Lorena Cesarini o Ave Maria di Francesca Maria Novello.

Qualcuno dirà che è una scelta poco coraggiosa, che manca la locura, che non siamo qui a vedere le scalette che stanno al passo con gli orari, chiaro, ma il risultato in termini di ascolti funziona, e anche se non ci ricorderemo del Sanremo 2025 come del più pazzerello, di sicuro non ce lo ricorderemo neanche per il più sgangherato o caotico – Baglioni, mi manchi.

In questa Sanremo che strizza l’occhio a The Brutalist in quanto a minimalismo e asciuttezza Conti sa dove piazzare le pedine giuste, da vecchia volpe della tv, autore scaltro e baudista di corrente moderata, cecchettiano di prima leva. Ed ecco, quindi, che pesante come un colpo alla seconda sera arriva inevitabile la tassa bambini, perché Conti lo sa, lui che la televisione la conosce meglio di quanto voglia far vedere, che al pubblico piace, anzi, il pubblico adora vedere un piccolo uomo di martiniana memoria vestito da grande, che fa cose da grandi e pensa da grandi, anche se poi, lo vediamo tutti, è così piccino.

Lo sapeva anche Mr.Rain con il suo ricattatorio coro di angioletti qualche Sanremo fa, e soprattutto lo sapeva Povia, che cantava di bambini che fanno «Oh!» e di pazzi che hanno capito cos’è l’amore, oltre che la SIAE, ma insomma, è una regola che proprio non stanca.

Forse per lo stesso principio per cui io rimango ipnotizzata di fronte a fiumi di reel di persone che creano versioni microscopiche di piatti commestibili da dare in pasto ai criceti – internet è grande, ce n’è davvero per tutti i gusti – o forse per lo stesso principio per cui la gente costruisce trenini in miniatura, l’idea che un essere umano alto un quarto di noi e largo la metà possa esibirsi sul palco, anche solo a versare lacrime come ha fatto Vittorio, il bambino che stava alle spalle di Damiano David durante la sua esibizione mentre Alessandro Borghi col mullet gli teneva la mano in quota attore intenso, è un tripudio di commozione, entusiasmo, telefoni messi in orizzontale per fare video da mandare alla chat di famiglia.

ANSA

Il peso delle aspettative

E quanto sono belle le creature, specialmente se dopo aver suonato al pianoforte con la disinvoltura del Buddy Holly caprese, alla domanda «E poi dove vuoi arrivare?» rispondono con un sincero e tenerissimo «Boh» – ah, quando i bambini fanno «Boh»! direbbe Povia. Anche se la domanda giusta potrebbe essere perché Alessandro non è a casa a dormire invece di stare qua a parlare del suo futuro? Perché a noi piacciono i trenini in miniatura, Alessandro, e ora ti becchi pure la standing ovation dell’Ariston anche se vuoi andare a nanna.

Del resto, la nostra televisione è costellata di piccoli talenti che teneramente sfoggiano la loro precoce adultità. Uno dei programmi più in vista di mamma Rai, di nome e di fatto, è The Voice Kids, presentato dalla figura materna freudianamente più coerente con l’inconscio collettivo italiano, Antonella Clerici. In quel caso, non abbiamo uno solo piccolo Alessandro, ma un’intera flotta di baby crooner e soprani che ci dilettano con il loro talento promettente – qualcuno ha mai fatto un documentario sui vincitori dello Zecchino D’Oro da grandi e sulle conseguenze del peso delle aspettative che hanno avuto addosso per quel premio?

Eventualmente, mi offro come sceneggiatrice. Se Rai spara, Mediaset risponde, proprio con il compagno di co-conduzione della prima serata di Sanremo, l’altra personificazione della figura paterna di questo paese, Gerry Scotti, detto appunto Zio Gerry. Io canto Generation, programma preferito di Pier Silvio Berlusconi, segue uno schema molto simile a quello di The Voice Kids: giovanissimi talenti, sguardi innocenti, voci pure, un’umanità non ancora inquinata dalle scorie della vita, ma abbastanza sveglia da intonare Sinceramente di Annalisa sul palco duettando con Iva Zanicchi.

Samuele Parodi, 11 anni, è stato sul palco nella terza serata: è un'enciclopedia vivente di Sanremo, conosce tutto di tutte le edizioni

Del resto, con questo desiderio morboso di vedere un corpo giovane che si esprime in gesti e suoni maturi abbiamo fatto diventare Edoardo Prati un personaggio mainstream, se così lo vogliamo definire. Va da Fabio Fazio, conduce format per Repubblica, è la quintessenza del sogno di ogni mamma, ragazzo colto, a modo ed educato, o di ogni ultrasessantenne che cerca nelle nuove generazioni una copia di sé che lo rispecchi alla perfezione e che lo assolva dall’ammettere che il suo modello intellettuale ed estetico potrebbe essere superato; lui si che è un bravo ragazzo, mica come Tony Effe che si deve coprire i tatuaggi in faccia col cerone.

Prati è il cosplayer di un intellettuale ultraottantenne: i suoi contenuti sono piuttosto superficiali ma non è questo ciò che conta della sua presenza nel discorso pubblico. Ciò che conta è che questo ragazzo di vent’anni si atteggi e si mostri come un piccolo grande talento, esattamente come Alessandro al pianoforte, o come la baby modella di TikTok «Titti cosa indossa Ludovica?», per cambiare totalmente genere ma rimanendo pur sempre nel grande calderone degli esseri umani a cui non si è ancora formato del tutto il cervello, ma che si travestono da bipedi perfettamente sviluppati mentre noi gli lanciamo le noccioline in forma di like.

l’ombra incombente del futuro già scritto

Forse, in questa passione per l’inversione di ruolo che anima la nostra televisione stanca, ma anche i nostri algoritmi sempre a lavoro, c’è un po’ lo stesso sentimento che spinge persone adulte a fingere di essere adolescenti. Forse, nel vedere un bambino che ha già tutta la biografia scritta in fronte, perché il talento è un contratto con la vita a tempo indeterminato, c’è la consolazione del sapere che alla fine poi invecchia pure lui, e se si porta avanti con gli impicci delle tappe esistenziali meglio ancora.

Noi che non abbiamo trovato uno scopo manco dopo la maturità, che t’avessi presa prima ma pure se t’avessi presa prima non avrei saputo cosa farcene, noi persone normali, che alle volte ci sentiamo pure mediocri, insomma noi pubblico generalista, alla fine ci commuoviamo di fronte al piccolo Alessandro perché nella sua vitalità da infante scorgiamo l’ombra incombente del futuro già scritto.

Tra gli articoli clickbait più in voga, in fondo, ci sono quelle colonnine che dicono «Che fine ha fatto X?», quello che era così promettente a sei anni, e poi guardalo com’è diventato, una persona normale, e vai di Schadenfreude e tutte quelle altre parole tedesche per descrivere ciò che sentiamo ma che abbiamo paura di mostrare.

Nel dubbio, fossi in Conti, al prossimo Sanremo proverei a portare sul palco anche dei cuccioli di gatto, ché con quelli almeno la competizione non regge, tanto hanno nove vite davanti.

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