In concomitanza con l’ingresso di Sofia in area Shengen, violenze da parte del governo sono sempre più frequenti e documentate, così come i pushbacks, i respingimenti illegali da parte della polizia di frontiera. Le violazioni dei diritti hanno iniziato a riguardare, oltre alle persone migranti, anche gli attivisti internazionali stessi. Le denunce delle associazioni
Il confine turco-bulgaro è da tempo uno degli snodi principali del “Game”, come le stesse persone migranti definiscono le rotte balcaniche, essendo in molti casi il primo confine con un paese europeo che le persone attraversano. Soprattutto le più vulnerabili, che percorrono questa strada per evitare la pericolosa traversata in mare per raggiungere le isole greche.
Negli ultimi anni, e in particolare in concomitanza con l’ingresso della Bulgaria in area Schengen, violenze e violazioni dei diritti umani da parte del governo di Sofia sono sempre più frequenti e documentate, così come i pushbacks, i respingimenti illegali da parte della polizia di frontiera. Pratica ben nota agli attivisti: «Assistiamo continuamente a camion militari che transitano sul confine, di quelli che normalmente trasportano soldati», racconta Giuseppe, attivista di Collettivo rotte balcaniche (Crb), con alle spalle cinque missioni al confine.
Solo che qui sono utilizzati per riportare le persone trovate nei boschi bulgari in Turchia: «Una volta ne abbiamo bloccato uno pieno di persone; gli agenti hanno subito alzato le mani, perché sapevano che stavano facendo una cosa illegale e potevano essere coinvolti direttamente».
Solo in presenza degli internazionali le azioni di deportazione si fermano: «In quel caso le persone sul camion sono poi state tutte identificate e hanno potuto fare richiesta di asilo». Il collettivo ha così deciso di attivarsi sul confine turco-bulgaro ed è presente da giugno 2023 per dare supporto alle persone in movimento, sia fuori dal campo di Harmanli, dove fornisce prima assistenza, sia tramite una linea di emergenza che le persone possono chiamare in situazioni di pericolo di vita durante il viaggio.
Non c’è alcun rispetto, riportano gli attivisti, nemmeno per i cadaveri: «Abbiamo la certezza di almeno un corpo trovato sul lato turco del confine, mentre l’ultima posizione che ci aveva mandato da vivo era dal lato bulgaro».
I ritrovamenti di persone che non ce l’hanno fatta sono sempre numerosi nella zona di frontiera: «L’ultimo è stato un ragazzino quattordicenne egiziano, all’arrivo dei soccorritori sono stati trovati solo gli indumenti e qualche parte del corpo, e questa è già una fortuna». Moltissime persone invece non vengono trovate affatto, semplicemente spariscono nel nulla: «La questione più ampia delle cosiddette missing people, le persone che non troviamo più, è un altro tema pesantissimo, sul quale non troviamo nessuna collaborazione dalle autorità».
«La nostra presenza», spiega ancora Giuseppe, «così come quella della flotta civile nel Mediterraneo, oltre a salvare le persone, permette loro di avere almeno la possibilità di fare richiesta di asilo, altrimenti il compito della Border Police è quello di respingerle, vive o morte».
Il silenzio generale
Le violazioni dei diritti hanno iniziato a riguardare, oltre alle persone migranti, anche gli attivisti internazionali stessi. Lo scorso autunno sette attivisti, tra italiani, inglesi e tedeschi, sono stati vittime di arresti illegali sul confine, in due diversi casi. In entrambi gli arresti, gli attivisti sono stati detenuti nella stazione di polizia di frontiera di Elhovo, le cui condizioni, riporta Marco, protagonista del primo dei due episodi, sono “inaccettabili”.
Nel suo arresto sono stati coinvolti cinque cittadini italiani e 17 siriani, tra cui un bambino di 7 mesi e 12 minori, tutti detenuti insieme a Elhovo. «Gli agenti erano tutti a volto coperto», racconta Marco, «hanno diviso noi internazionali mettendoci uno per cella con i siriani, così non eravamo in grado di comunicare con nessuno. C’era un unico bagno, con escrementi a terra, in cui non si poteva nemmeno tirare l’acqua, naturalmente non potevi decidere tu quando andarci, non ci hanno fatto chiamare nessuno, né vedere un avvocato, da mangiare in 16 ore ci hanno portato solo un pacchetto di fette biscottate e una porzione di carne in scatola».
Gli arresti non hanno alcun presupposto legale, punto su cui verte il ricorso portato avanti dagli avvocati. Una volta arrivati in caserma, ammanettati, gli attivisti sono stati fatti spogliare completamente per una perquisizione, effettuata sempre da ufficiali a volto coperto. Dall’ambasciata italiana, immediatamente allertata, nessuna reazione.
«Un’esperienza abbastanza spaventosa», spiega Giuseppe, «forse è presto per definire i cambiamenti che abbiamo osservato sistemici, però negli ultimi mesi ci sono capitate cose che non ci erano mai successe prima.
Questi tre episodi (compreso uno simile avvenuto a settembre, ndr) sono stati molto pesanti: il fatto di essere spogliati, nudi, con le manette, di essere chiusi dentro una cella, il tutto con gli agenti mascherati, ti fa sentire vulnerabile». Concorda Marco: «Mentre ero detenuto continuavo a pensare che questo è quello che le persone in movimento subiscono continuamente, in maniera sistematica».
Frontex presente
Sulla scena di almeno uno degli arresti era presente anche Frontex, l’agenzia europea che si occupa della gestione delle frontiere esterne degli Stati membri. «C’era un giovane agente di Frontex insieme alla polizia bulgara», racconta Giuseppe, «ci ha detto che quell’arresto non era legale, ha detto che si sarebbe occupato della faccenda». Dopo quel giorno, l’agente non è più stato visto nella zona.
La presenza dell’agenzia durante soccorsi in cui avvengono violazioni dei diritti umani o, come in questo caso, di leggi internazionali non sarebbe una novità: «Dovrebbero essere lì, oltre che per organizzare e dare consulenza alla polizia bulgara, anche per sorvegliare sul rispetto dei diritti umani, ma nella maggior parte dei casi si tratta di agenti molto giovani, completamente succubi della polizia bulgara, che non si oppongono e anzi in diversi casi hanno anche collaborato per impedirci di arrivare sul luogo del soccorso».
I collettivi che operano nell’area denunciano da tempo l’atteggiamento di tutte le forze di polizia sul confine, Frontex compresa: «Il fatto che vogliano tenerci lontano da qui è evidente e sistematico. Presidiano e usano quella zona per fare respingimenti illegali, quindi chiunque si metta in mezzo subisce la loro pressione». Crb però non si ferma: «Non ci facciamo intimidire, appena potremo saremo di nuovo sul campo».
Criminalizzare il soccorso
Gli arresti subiti da Crb sembrano inserirsi perfettamente nel contesto delle politiche europee sulla migrazione, orientate in maniera sempre più decisa e sistematica all’esternalizzazione delle frontiere, all’invisibilizzazione delle persone migranti e alla criminalizzazione del soccorso.
Dinamiche ben note a Nicola Cocco, medico umanitario, infettivologo e attivista nella rete “Mai più Lager - no Cpr”, esperto di medicina della migrazione. Parlando delle prassi del respingimento europee, nel commentare gli arresti in Bulgaria, Cocco cita come centrale il concetto di migranticidio, introdotto dal giurista Luigi Ferrajoli: «Il migranticidio è un altro modo di intendere il desiderio, mi verrebbe da dire postcoloniale, dei paesi occidentali, dei paesi europei in particolare, di non vedere più le persone migranti. Sia che queste vengano violate nella loro dignità, nei loro diritti, prima di partire, sia che muoiano durante il percorso, sia che vengano nascoste o respinte dalle pratiche di detenzione amministrativa o di esternalizzazione delle frontiere una volta che sono arrivate».
Secondo questa logica, criminalizzare il soccorso diventa una conseguenza naturale, perché «quelle che non vengono soccorse, semplicemente, non sono più considerate vite».
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