Lorena Quaranta era una studentessa di Medicina all’ultimo anno quando è stata strangolata dal compagno Antonio De Pace, il 31 marzo 2020 a Furci Siculo, un piccolo paese in provincia di Messina. Erano i giorni del primo lockdown. L’Italia stava affrontando l’esplosione della pandemia da Covid-19, e le associazioni che si occupano di contrastare la violenza di genere avevano già lanciato l’allarme sull’aumento delle segnalazioni. Una preoccupazione poi confermata dai dati dell’Istat secondo cui «le misure restrittive alla mobilità, adottate per il contenimento della pandemia, hanno amplificato nelle donne la paura per la propria incolumità».

De Pace è stato condannato all’ergastolo per quel femminicidio dalla Corte di assise di appello di Messina ma la sentenza della Cassazione, depositata il 9 luglio 2024, ha annullato la decisione per quanto riguarda le attenuanti generiche e rinviato alla Corte di Reggio Calabria che ora dovrà ricalcolare la pena. Per i giudici della Suprema corte, quelli di appello non avrebbero tenuto conto delle condizioni psicologiche dell’uomo e dello stress derivato dall’emergenza pandemica.

I fatti

Il femminicidio è avvenuto nella casa in cui Quaranta e De Pace vivevano da circa un anno. La ragazza da qualche settimana aveva un’infezione alle vie respiratorie e l’uomo, infermiere, manifestava una forte preoccupazione per il virus. La mattina del 31 marzo, dopo una discussione, l’ha uccisa. Quindi ha provato a togliersi la vita, senza riuscirci, ha chiamato le forze dell’ordine e ha confessato il delitto, attribuendo il gesto a un presunto stato di stress causato dalla pandemia.

Per i giudici di appello la condizione di disagio psicologico non era tale da ritenere applicabili le attenuanti generiche, «per la massima offensività della condotta» e «le efferate e cruenti modalità dell’azione». Una scelta contestata dalla Cassazione.

Il nodo politico

«Il nodo sociale, culturale e di politica del diritto, è che pare assurdo pensare che alcune situazioni, come la preoccupazione legata a un eventuale contagio da Covid, possano essere ritenute tali da attenuare un trattamento sanzionatorio per l’uccisione di una donna», dice l’avvocata Ilaria Boiano, che fa parte dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna di Roma.

Non è una questione di entità della pena, sottolinea l’avvocata, se 30 anni o l’ergastolo. «Questa decisione legittima il fatto che una condizione di forte stress autorizzi a perdere il controllo», evidenzia Boiano, «è una lettura della Corte che tradisce i fatti e il diritto». Ed è la stessa sentenza della Cassazione a suggerire, prosegue, «che quest’uomo è figlio sano del patriarcato», considerando anche la modalità con cui la donna è stata uccisa, «tra le più brutali».

La motivazione

Secondo l’ultimo grado di giudizio la decisione del giudice di appello di escludere le attenuanti sarebbe viziata dalla carenza di motivazione. Ma qui la Cassazione – in una sentenza che cita tutti i soggetti coinvolti per cognome meno che la donna, chiamata semplicemente Lorena – si sposta su un piano di merito e sostiene che la Corte di assise di appello, nel comminare la sanzione, non abbia tenuto conto «dell’incidenza della causa che ha provocato la condizione di agitazione sulla condotta».

In altre parole, i giudici di appello non hanno considerato la fonte del disagio, il sopraggiungere dell’emergenza pandemica «con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda», si legge nella sentenza.

La Cassazione è chiamata a una valutazione formale, non dovrebbe entrare nel merito dei fatti di una controversia. «Colpisce l’attenzione della Corte sugli aspetti di merito», evidenzia Boiano. Mentre in questo caso è intervenuta sulla sostanza, con l’escamotage del vizio di motivazione, fa notare l’avvocata, e «mette il bollino dello stato a una lettura sessista che di fatto considera attenuata una condotta che – come emerge dalla ricostruzione dei fatti che compie la stessa sentenza di Cassazione – si inserisce in un quadro complesso di comportamenti propri di un uomo violento. Lo confermano le successive aggressioni rivolte dall’imputato ad altre persone».

Allarmante

La decisione «lascia sgomente», «fortemente allarmate», dicono le attiviste del centro antiviolenza Una di Noi di Villafranca Tirrena, in provincia di Messina, che si sono costituite parte civile nel processo, oltre alla famiglia della ragazza.

Anche le forze politiche hanno espresso preoccupazione per la sentenza: una notizia «sconfortante e agghiacciante», secondo il senatore del M5s Pietro Lorefice, che rappresenta un «precedente pericolosissimo per tutti noi». «Non ci sono alibi, non ci sono scuse, non ci sono motivazioni che giustifichino mai un femminicidio», la reazione della deputata di Noi moderati Martina Semenzato, presidente della Commissione d’inchiesta femminicidio e violenza di genere. È «un passo indietro», ha invece detto la senatrice dem Valeria Valente, «perché riconduce alla possibilità di considerare le condizioni emotive del femminicida».

Le attenuanti nei processi

«Non è l’unica motivazione che desta preoccupazione», dice l’avvocata. Nel rapporto del 2021 della Commissione di inchiesta del Senato emerge che gli stati emotivi e passionali «vengono ancora valorizzati nel calcolo della pena, con riduzioni che arrivano sino a un terzo». Una scelta – evidenzia il report – esclusivamente culturale e valoriale dell’interprete.

«Come risulta dalla relazione, a cui ha contribuito anche l’avvocata Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna», conclude Boiano, «nelle sentenze contro femminicidi non di rado si riconoscono le attenuanti generiche per stanchezza, disoccupazione, o per la disperazione di essere stato lasciato. Si trova sempre un motivo che attenui la responsabilità penale di un uomo che uccide una donna e ciò non ha niente di giuridico».

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