Palazzo Chigi trasformato in un bunker di guerra, dopo la bomba scaricata da Donald Trump sotto forma di dazi. Secondo fonti interne del governo, fino all’ultimo Giorgia Meloni aveva sperato nell’insperabile: che il presidente americano facesse dei distinguo tra paesi europei nel calare la sua mannaia, o almeno che risparmiasse alcuni settori come l’agroalimentare.

L’Ue è una «parassita», vista dall’altra sponda dell’Atlantico, e Trump non riconosce nessun amico, men che meno per la piccola Italia ancora in fila per un colloquio alla Casa Bianca.

In questo clima d’assedio si è risvegliata la premier, che ha annullato tutti i suoi impegni in agenda per una riunione di emergenza a palazzo Chigi. Lo stesso hanno fatto i suoi ministri, in particolare quello del Made in Italy, Adolfo Urso, mentre a metà mattina è arrivato a palazzo Chigi il vicepremier Matteo Salvini, e Antonio Tajani si è collegato da Bruxelles.

Presenti al tavolo anche il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, e il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti. Tutti riuniti per capire il da farsi, corroborando così l’immagine di un governo colto alla sprovvista e impreparato davanti a misure pur da tempo annunciate dall’amministrazione Usa.

Nel vertice, durato un’ora e mezza, si è tentato anzitutto di fare ordine, quantificando i danni potenziali intorno al 10 per cento delle esportazioni, con l’effetto di ridurre il Pil di almeno il 3 per cento, portando le stime di crescita pericolosamente verso lo zero e trascinando in basso anche l’occupazione. Poi ci si è interrogati su come misurare la reazione italiana e quale posizione portare in Unione europea.

Solo a fine giornata Meloni ha infine deciso di parlare con una intervista esclusiva al Tg1. I dazi sono «un problema, ma non una catastrofe», è stata l’analisi, nonostante la giornata sia stata un rincorrersi di comunicati stampa allarmati di tutte le sigle dei settori commerciali.

«Condivideremo la scelta delle soluzioni migliori con i partner europei», ha detto la premier, che poi però ha sconfessato quanto già filtrato dalla Commissione secondo cui Ursula von der Leyen sarebbe pronta a controdazi da annunciare il 15 aprile. «Non sono convinta sui controdazi, perché il rischio è che abbiano un impatto maggiore sulla nostra economica», invece bisognerà «aprire una discussione franca con gli Stati Uniti per arrivare a rimuovere i dazi, non a moltiplicarli».

Una scelta di campo nettissima che colloca Meloni sempre più in asse con Washington e sempre più lontana da Bruxelles. Ma anche in competizione con Matteo Salvini secondo cui «gli Stati Uniti hanno deciso di tutelare le proprie imprese» l’Italia deve difendere il suo interesse «alla luce dei troppi limiti dell’Europa», che «prima di pensare a guerre commerciali o contro-dazi» dovrebbe «tagliare burocrazia, vincoli e regole europee che soffocano le imprese».

Esattamente lo stesso ha detto Meloni, che intende «portare gli interessi italiani in Ue, rimuovendo i dazi autoimposti sull’automotive, il Green deal, sull’energia e la semplificazione delle regole. E perché no, modificando il Patto di stabilità».

La rottura con l’Ue

Nel mezzo della tempesta perfetta, il cellulare di Meloni e dei suoi consiglieri ha squillato ininterrottamente. Tutti i settori dell’economia italiana sono in ovvia fibrillazione, da Confindustria fino a Coldiretti, passando per le piccole e medie imprese.

Chiedono risposte rapide, ma anche quale sia la prospettiva di medio periodo verso cui si muove il paese davanti a quella che – piaccia o meno a Meloni – è una chiara dichiarazione di guerra commerciale. Per ora, tuttavia, dalla premier trapela solo non un appello alla «calma», perché molto potrebbe ancora cambiare. Nel calendario di palazzo Chigi, infatti, sono cerchiati in rosso i giorni prima di Pasqua in cui a Roma arriverà il vicepresidente americano J.D. Vance.

In quell’occasione Meloni spera di poter trattare soluzioni alternative. Vana speranza, secondo i detrattori della premier anche dentro il governo. Come unica scadenza, la premier ha promesso di incontrare le categorie produttive «per un confronto la prossima settimana» alla luce di uno «studio sull’impatto reale dei dazi», per trovare le soluzioni migliori.

Per ora l’unica certezza appare quella di voler prendere altro tempo prima di reagire. Del resto, lo avevano detto sia la premier sia il ministro Tajani alla vigilia dell’annuncio di Trump, usando il condizionale per riferirsi all’ipotesi dei dazi e allontanando «risposte di pancia».

Ora al governo non resta che stare ad aspettare le contromosse europee e l’inevitabile chiamata all’unità di tutti gli stati. Meloni sembra pronta a entrare in collisione con Bruxelles, pur nella consapevolezza che la risposta – auspicata anche dal Colle – sia diversa. Proprio contro il Quirinale si è mossa la Lega, che con il vicesegretario Davide Crippa è tornata a dire no alle modifiche richieste al ddl Sicurezza: «Eravamo più d’accordo col testo originale, non col testo edulcorato da Mattarella».

Quelle che attendono la premier sono settimane di fuoco, in cui le scelte fino ad oggi posticipate andranno prese e senza più il lusso del cavillo: Unione europea o Stati Uniti, ma anche una riflessione sull’adeguatezza della sua squadra di governo nei posti chiave – dal Made in Italy all’Agricoltura – chiamati a gestire questa fase.

Intanto, la giornata è finita col rumore di un tracollo della Borsa di Milano a meno 3,6, maglia nera d’Europa. Da mettere in conto rischia di esserci anche un calo del consenso nei mondi più penalizzati dai dazi. Prima occasione per testarne l’umore: questo fine settimana a Verona ci sarà il Vinitaly, dove si dà appuntamento un settore con il 28 per cento di export verso gli Usa. Un bagno di realtà rispetto ai freddi numeri, se il governo ne avesse ancora bisogno.

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