Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha chiesto che venga adottato nelle scuole. Ma Perché l’Italia è di destra pretende di raccontare la storia del nostro paese in un’ottica molto personale e nostalgica, individuando una sottile linea nera che unisce De Gasperi e Meloni
«Caro ministro, mi piacerebbe che questo libro fosse adottato nelle scuole». È la richiesta che il presidente del Senato Ignazio La Russa ha rivolto al ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, in occasione della presentazione di un libro fresco di stampa a opera di Italo Bocchino. Sarebbe certo un’ottima idea, se avessimo intenzione di riscrivere il passato con una splendida opera di mistificazione del Novecento e del tempo presente.
Perché l’Italia è di destra: affermazione a dir poco pretenziosa per un libro che, senza uno straccio di documento, pretende di raccontarci la storia d’Italia post-45 con l’ottica molto personale, e alquanto nostalgica, di ex missino cresciuto nella destra di Almirante, che si è lavato la coscienza nelle acque di Fiuggi, ma non riesce proprio a farsene una ragione di come i fatti sono andati.
Certo, bisognerebbe chiamarsi Eric Hobsbawm (che di mestiere lo storico lo faceva davvero) per avere la pretesa di leggere il passato con la lente del protagonista di un “secolo breve”. L’autore certo non lo pretende, ma cerca di convincere il lettore dell’esistenza di un amore viscerale per la destra che gli italiani coverebbero da sempre, in una sottile linea nera che unisce Alcide De Gasperi, passa da Silvio Berlusconi e arriva alla presidente Giorgia Meloni.
Gli storici puntualizzano, sottopongono i documenti ad analisi critica, scompongono il linguaggio e sono in genere dei gran rompiscatole, perché le semplificazioni non le amano molto, figuriamoci le narrazioni a posteriori che rimescolano le carte.
Le origini del fascismo
«Il fascismo nasce dal socialismo, non dalla destra storica». Per spiegarci le origini del ventennio l’autore scomoda nientemeno l’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, con buona pace di Renzo De Felice e Federico Chabod, che tranquilli nella tomba proprio non possono stare.
Che il fascismo fosse il frutto avvelenato della grande guerra, nato e cresciuto in una società disillusa e rancorosa, in mezzo a reduci disperati sopravvissuti per miracolo al fango delle trincee o ex arditi e giovani figli della borghesia, infiammati dal nazionalismo, ansiosi di menar le mani, non sfiora nemmeno per un momento l’autore.
Se il fascismo è venuto al mondo è solo colpa dei socialisti. Del resto Lenin era stato il primo ad esprimere un giudizio positivo su Benito Mussolini. Peccato che lo avesse fatto non a seguito della marcia su Roma, ma nel 1912: ovvero quando i due si erano incontrati in Svizzera e il futuro duce era ancora un astro nascente dell’internazionale socialista.
Nel nuovo manuale di storia contemporanea firmato Bocchino, arriva immancabile la citazione del movimento dei fasci di combattimento, fondato a Milano da Mussolini nel 1919: una sorta di religione anarchica capace di inneggiare alla Repubblica e proporre addirittura il voto alle donne. Come a dire che in fondo il fascismo non è tutto da buttare via perché un po’ di rivoluzione la voleva eccome.
Peccato che l’autore dimostri di non averlo mai sfogliato neppure per sbaglio un manuale di storia contemporanea: avrebbe letto dello stile aggressivo e violento inaugurato dai fascisti proprio a Milano il 15 aprile 1919 con l’incendio della sede dell’Avanti!. L’inizio delle gloriose gesta di uno squadrismo pronto a scagliarsi a colpi di pugnale e manganello, partorendo odio per generazioni, in una lunga scia di sangue.
Le scelte ignorate
Ma il colpo da maestro arriva con il giudizio impalcabile sull’antifascismo e la guerra di liberazione. Non chiedeteci patenti di antifascismo e smettetela di pretendere un’abiura che non arriverà. Siete voi a sinistra che trasformate ogni anniversario del 25 aprile in un’occasione per colpevolizzarci. «Il fascismo è stato un fenomeno di tutti», perché tutti erano stati fascisti (in fondo chi non aveva la tessera del partito in tasca?).
Anche nomi insospettabili nel pantheon della sinistra. L’ex segretario del Pci Alessandro Natta non era stato forse iscritto ai gruppi universitari fascisti da studente della Scuola Normale di Pisa? Verissimo, verrebbe da dire, se non fosse per un paio di particolari che fanno la differenza: che Natta aveva aderito alla rete clandestina del partito comunista già nel 1936 e che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i tedeschi avevano sorpreso lui e i suoi commilitoni sull’isola di Rodi, in Grecia, si era rifiutato di consegnare le armi e giurare fedeltà al Terzo Reich. E proprio la sua scelta lo aveva condannato alla prigionia da internato militare in Germania, schiavo dell’industria bellica nazista.
Poi arriva il turno di Giuliano Vassalli, ex presidente della Corte costituzionale, e che però (particolare non irrilevante) aveva organizzato l’evasione di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere di Regina Coeli, per poi essere portato a via Tasso.
Bisognerebbe allora ricordare al caro Bocchino che la differenza fra questi personaggi e quelli che aderirono alla Rsi (pur essendo tutti nati e cresciuti dentro l’Italia di regime) sta proprio nella scelta.
Ovvero in un atto di disobbedienza radicale contro il potere fascista, vissuto in clandestinità negli anni del carcere o al confino, arrivato poi alla decisione di impugnare le armi nella lotta di liberazione, con l’irrompere della guerra in casa. E al netto delle richieste di parificazione fra vincitori e vinti, fu proprio grazie a quella scelta (dolorosa, non scontata e carica di responsabilità) che il paese, trascinato nella rovina da Mussolini e dai sui miti guerrieri, riconquistò la libertà e anche la dignità. La stessa di cui hanno goduto anche i vinti.
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