Il Mef vuole un rappresentante tra i revisori dei conti degli enti beneficiari di contributi statali. Lo stato entrerà nelle produzioni private cinematografiche. Tajani protesta: «Sembra la Stasi»
Il fantasma Germania dell’Est si aggira sulla manovra, nel giorno in cui scatta l’allarme per il pesante taglio, di 4,6 miliardi di euro, al settore dell’automotive. Una denuncia dell’Anfia, associazione di categoria, che Pd, M5s e Avs definiscono «un suicidio».
Come se non bastasse nel testo vengono individuate «misure da Stasi», secondo l’interpretazione di Antonio Tajani, che sovvertono il credo ideologico della destra, nata abbracciando il vessillo della rivoluzione liberale di berlusconiana memoria, sebbene sia rimasta solo uno slogan, e che ora sta scoprendo una grande passione per il dirigismo; o quantomeno per uno statalismo nella versione più strong.
Lo stato mette le mani sulle società in rapporti con il pubblico, imponendo tetti agli stipendi dei manager. E non contento si intrufola nella filiera produttiva del mondo cinematografico con norme inserite nella legge di Bilancio. Dentro la stessa maggioranza vengono agitate preoccupazioni su una deriva dal sapore sovietico. Insulto peggiore non si potrebbe rivolgere a un governo di destra. Questo è il clima.
Stasi nelle società
Il vicepremier Tajani ha scomodato il paragone con la Stasi, il temibile apparato di sicurezza e controllo della Germania dell’Est che allungava le mani in ogni angolo della vita sociale ed economica. Il leader di Forza Italia ha visto passare davanti agli occhi il film “Le vite degli altri”, famoso per aver raccontato cosa significasse la Stasi ai tempi del Muro di Berlino, quando ha letto con attenzione gli articoli della manovra.
Di stampo simil sovietico gli è apparsa la misura che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha infilato – nemmeno tanto di soppiatto – nella legge di Bilancio: l’obbligo di presenza di un rappresentante del Mef tra i revisori dei conti delle società o degli enti beneficiari di finanziamenti pubblici di almeno 100mila euro. Un successivo decreto ministeriale indicherà la portata esatta della norma. Di sicuro avrebbe fatto saltare dalla sedia Silvio Berlusconi.
In privato c’è chi non ha trattenuto lo stupore. Il malumore ha tracimato, superando gli argini dei retroscena. Il solitamente mite Tajani è sbottato pubblicamente, parlando di una «norma priva di qualsiasi senso» dietro cui intravede «qualche burocrate del Mef» che intende allungare lo sguardo sui conti di enti e fondazioni sussidiate, testuale, «anche in modo indiretto». Il segretario di Forza Italia ha messo agli atti: «I revisori dei conti devono fare il loro lavoro. Non serve un sistema che rischia di trasformare il Mef nella Stasi. Non è questo certamente l’intendimento del governo».
La norma va corretta – quindi cancellata – durante l’iter in parlamento. Gli azzurri sono stati allertati. Una crepa aperta, l’ennesima, tra Forza Italia e i compagni della coalizione.
In fondo la cosa non dispiace a Fratelli d’Italia, ma crea qualche imbarazzo dentro la Lega. Il ministro Giorgetti l’ha voluta per rivendicare la campagna pauperistica avviata sulla manovra, ma si scontra con il leghismo imprenditoriale di matrice – almeno sulla carta – più liberale. Il sottosegretario all’Economia, Federico Freni, aveva già invitato alla «cautele» e a interventi mirati. «Non siamo in Russia», aveva detto in riferimento all’altra misura dirigista del provvedimento in esame alla Camera, il limite sulla remunerazione dei manager al vertice di agenzie, enti e fondazioni destinatarie di risorse statali.
Un altro colpo allo stomaco per i liberali d’antan di FI e che ha fatto inarcare qualche sopracciglio addirittura dentro Fratelli d’Italia. I deputati meloniani hanno recapitato un messaggio informale al “loro” presidente della commissione Finanze a Montecitorio, Marco Osnato: «Attenzione al rischio di fuga dal pubblico».
Il provvedimento non è un totem intoccabile: ieri la commissione bilancio della Camera ha cassato alcuni interventi, tra cui quello già pieno di “mancette”, con un milione e mezzo dati ai carnevali storici e un altro milione elargito per il settore dei festival, dei cori e delle bande musicali.
Cinema di Stato
E non solo sugli enti pubblici lo stato si diletta: vuole macinare soldi addirittura nel mondo del cinema.
Nella manovra spicca l’ennesimo ritocco al tax credit, il meccanismo di incentivi e sgravi recentemente riformato dal ministero della Cultura, durante il mandato di Gennaro Sangiuliano, in sinergia con la sottosegretaria, Lucia Borgonzoni. Secondo la versione della manovra economica inviata alla Camera lo stato «acquisisce la titolarità, in misura proporzionale al credito d’imposta riconosciuto, di una quota dei diritti sulle opere beneficiarie e dei relativi proventi».
Si arriva così «a toccare le decisioni delle produzioni in materia di pagamento di attori registi e sceneggiatori, introducendo la possibilità dello stato di entrare nella catena della ripartizione dei diritti in misura percentuale al tax credit ricevuto dalla produzione», denuncia a Domani Irene Manzi, capogruppo del Pd in commissione Cultura alla Camera. «Sono norme che portano l’Italia fuori dal mercato audiovisivo internazionale», aggiunge preoccupata.
Ma se è fisiologico che le opposizioni manifestino dissenso, ci sono altri punti che fanno inalberare i liberali eredi del berlusconismo, cogliendo una spinta dirigista e tassatrice. «Non possiamo permetterci di aumentare la tassazione sulle plusvalenze crypto al 42 per cento, né di estendere la web tax alle piccole e medie imprese digitali», osserva preoccupato il senatore di FI, Mario Occhiuto. Che insieme ai colleghi di partito scorge in controluce l’esultanza di un saluto a pugno chiuso.
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