In mattinata un colloquio fra Mattarella e Meloni stempera le tensioni. Il provvedimento “avvicinato” alla norma Ue su consiglio del presidente
La firma del presidente della Repubblica sul “decreto Albania” è arrivata poco prima delle 19, in una giornata che si era aperta con un mezzo segnale di distensione, almeno sul Colle più alto, del clima politico infuocato di questi giorni.
Da palazzo Chigi è filtrata la notizia di un «breve colloquio a quattr’occhi» fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, nella tarda mattinata, in coda alla riunione del Consiglio supremo di difesa. I due, secondo le agenzie di stampa, si sono «trattenuti in privato». In realtà, che il presidente e la presidente si scambino qualche parola alla fine di un incontro è un fatto consueto; tanto più dopo una riunione sui delicati temi sul fronte estero, su cui governo e Quirinale sono in sintonia.
A unire i due, c’era anche la difesa della polizia italiana dalle accuse di razzismo contenute nel rapporto della Commissione di monitoraggio del Consiglio d’Europa. Mattarella è tornato sul tema con un gesto simbolico: ha ricevuto al Quirinale l’Associazione delle gendarmerie e forze di polizia a statuto militare, e davanti ai suoi rappresentanti ha rinnovato «fiducia e riconoscenza» alle forze dell’ordine.
Non mancherebbero altri argomenti per il «colloquio». Ma sono i temi assai meno condivisi di queste ore: lo scontro fra governo e magistratura e la vicenda dei migranti e dei centri italiani in Albania. Ed è per questo che la sottolineatura del «colloquio a quattr’occhi» fatta da fonti di palazzo Chigi fa pensare a un’ostentazione di cordialità fra i due, utile alla premier.
Il decreto «scarno»
Il “decreto Albania” ora va alle camere per diventare legge. Nessun giallo sul suo arrivo al Quirinale un giorno più tardi del previsto: era alla «bollinatura» della Ragioneria dello stato da martedì sera, ma è arrivato insieme alla legge di Bilancio, che ha avuto priorità nell’esame.
Il testo è rimasto quello «scarno» consigliato dal Colle, e su cui è attivata la «collaborazione istituzionale», per usare una delle recenti espressioni di Mattarella, con palazzo Chigi.
Tre articoli, preceduti da un richiamo alla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue del 4 ottobre 2024 e alla «straordinaria necessità ed urgenza di designare i Paesi di origine sicuri, tenendo conto della sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, escludendo i paesi che non soddisfano le condizioni per determinate parti del loro territorio (Camerun, Colombia e Nigeria)».
I paesi considerati sicuri “per legge” sono ora 19, non più 22: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. L’elenco sarà aggiornato «periodicamente».
L’unica novità è l’introduzione della possibilità di appello da parte del governo contro le ordinanze dei giudici sul trattenimento dei migranti, oltre ricorso alla Cassazione. «La proposizione del reclamo non sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento reclamato». La corte d’Appello deciderà entro dieci giorni. In quindici giorni ogni contenzioso dovrebbe essere risolto. Ma non è un tempo breve.
Non contro l’Ue
La firma-lampo di Mattarella si spiega con il fatto che il Colle ha convinto il governo ad “avvicinare” il testo alla norma europea. Che comunque continua a essere quella che i giudici dovranno applicare. La maggioranza lo ammette, e diversamente non potrebbe fare, anche se continua a fare confusione.
«È sbagliato considerare il decreto del Consiglio dei ministri una risposta alla magistratura», ha spiegato il capogruppo FdI alla Camera Tommaso Foti a La7, «al contrario dà certezza all’operatore giuridico. Resta fermo il fatto che il giudice dovrà sempre valutare nel caso concreto che non ci siano presupposti per il rimpatrio». Insomma dovrà fare esattamente come ha fatto il vituperato Tribunale di Roma.
Costi ed esposti
Ursula von der Leyen, a Tirana in una conferenza stampa con il premier Edi Rama, è stata prudente sui pasticci dell’amica Meloni: quello fra Italia e Albania, ha detto, «è un accordo bilaterale; ne seguiamo con attenzione gli sviluppi, ma non possiamo commentarlo». In Italia il caso non è certo chiuso: al question time della Camera Avs ha chiesto al ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, i costi del «trasferimento, la permanenza in Albania e il rientro in Italia» dei 16 migranti della nave Libra.
Il ministro non ha dato cifre. Italia viva ha depositato un esposto alla Corte dei Conti sull’eventuale danno erariale provocato dal «modello Albania»: la premier non poteva non sapere, è l’assunto, che il trasferimento dei migranti nei centri albanesi «viola il diritto europeo e che quindi l’autorità giudiziaria avrebbe potuto giudicarlo illegittimo».
Insomma, sapeva che c’era un’alta probabilità di sprecare soldi pubblici. Secondo il governo, per l’attuazione del protocollo sono stati stanziati 134 milioni di euro annui per cinque anni, un totale di 670 milioni; il trasporto dalle zone Sar dove i naufraghi vengono raccolti costa circa 20mila euro, quindi il solo primo viaggio sarebbe costato 320mila euro. Solo propaganda, per Iv, «è vergognoso utilizzare i soldi degli italiani per giocare a fare l’Istituto Luce».
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