Tempi duri attendono l’università e la ricerca in Italia. Con la fiducia alla legge di Bilancio 2025, sono stati approvati nuovi tagli per il triennio 2025-2027: il bilancio del Mur (ministero dell’Università e della ricerca) verrà ridotto di 247 milioni di euro nel 2025, di 239 milioni nel 2026 e di 216 milioni nel 2027.

Tagli a pioggia

La sforbiciata si aggiunge a quella di oltre 170 milioni di euro, rispetto al 2023, già assestata al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), strumento con cui le università pubbliche coprono le spese istituzionali, tra cui costi del personale e funzionamento.

Inoltre, l’aumento degli stipendi dei docenti del 4,8 per cento per il recupero dell’inflazione (una spesa obbligatoria nella amministrazione pubblica) non ha ricevuto coperture aggiuntive e andrà quindi a pesare sui finanziamenti già previsti.

Non vi è traccia nemmeno dei 340 milioni di euro previsti dal piano straordinario che sarebbe servito ad assumere nuovi professori associati, una componente fondamentale della programmazione degli atenei nei prossimi anni. La picconata alle nuove assunzioni viene anche dalla riduzione del turnover, limitato al 75 per cento dalla legge di Bilancio: ogni 4 professori che vanno in pensione possono venire assunte solo 3 nuove figure.

Buona parte dei 20mila assegnisti e 9mila ricercatori a tempo determinato (Rtd-a), che rappresentano il 40 per cento del personale universitario, è destinata a rimanere precaria ancora a lungo o a dover abbandonare l’università, come del resto già fa il 90 per cento di chi ottiene un dottorato di ricerca in Italia, spesso senza trovare però nel tessuto produttivo un collocamento adeguato alle alte competenze.

Il ritorno del precariato

A rendere ancora più accidentato il percorso di chi affolla il pre-ruolo universitario è il disegno di riforma della ministra Anna Maria Bernini, che moltiplica gli inquadramenti precari: viene reintrodotta l’anacronistica figura dell’assistente di ricerca (junior e senior) e quella del professore aggiunto, di nomina rettorale. Resta nel dimenticatoio invece il contratto di ricerca che era stato introdotto dalla ministra Messa durante il governo Draghi e che avrebbe garantito ai ricercatori maggiori tutele lavorative.

I rischi di ridimensionamento di università e ricerca hanno spinto una rete di 122 società scientifiche italiane a riunirsi, lo scorso 16 dicembre, presso l’Università per stranieri di Siena. «È in gioco la qualità di sviluppo del Paese», ha detto dall’aula magna Virginia Woolf Mario Pianta, presidente della Società italiana di economia e professore di politica economica della Scuola Normale Superiore a Firenze. «È in gioco la nostra capacità di intervenire sulle grandi trasformazioni, la transizione digitale e la transizione ambientale».

Non solo il nostro Paese è distante dalle percentuali di Pil che Francia e Germania destinano alla ricerca, ma da almeno un decennio indirizza una parte crescente di quei pochi finanziamenti, sotto forma di sgravi fiscali, alle imprese che dichiarano di fare ricerca. «In realtà i brevetti non sono aumentati e le innovazioni non sono aumentate», ha sottolineato Pianta. Transizione digitale ed ecologica richiederebbero competenze specializzate e supporto direzionato, invece «si lascia fare alle imprese quello che non hanno fatto nei decenni precedenti».

Anche il Pnrr è stata un’occasione persa: la ricerca delle imprese è stata ancora incentivata solo con sgravi fiscali, senza condizioni, mentre un eccessivo carico burocratico ha inceppato il flusso di risorse destinate agli enti pubblici, ha sostenuto Pianta. Le università hanno assunto nuovi ricercatori a tempo determinato (Rtd-a), che però non potranno venire confermati alla luce dei nuovi tagli. Gli investimenti del Pnrr verranno così vanificati.

Lauree telematiche

Un altro dato preoccupante è che dal 2011 al 2023 il numero di studenti delle università pubbliche è calato da circa 1,6 a 1,5 milioni, mentre nello stesso periodo è aumentato di quasi 10 volte quello degli iscritti alle università telematiche, passando da circa 40mila a oltre 370mila.

Si tratta di enti for profit, dove la formazione viene erogata per lo più tramite corsi pre-registrati e il rapporto studenti-docenti è di 300 a 1, contro il 28 a 1 delle università pubbliche. Inoltre, sono carenti di laboratori o biblioteche e non vi è controllo sulla qualità scientifica di docenti e tutor, ha rimarcato Maria Luisa Meneghetti, filologa dell’Università Statale di Milano e accademica dei Lincei.

Le telematiche «hanno il pregio di produrre diplomi, non pensiero critico. E di avere studenti virtuali: che non possono scendere in piazza», ha detto il rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari nel discorso di apertura dell’incontro.

«Credo che il disegno politico che abbiamo davanti sia perfettamente leggibile. Affamare le università, aumentare il precariato, contrarre l’autonomia, limitare la libertà: per indurre le università a fondersi tra loro (sarà il prossimo passo, già annunciato), a trasformarsi in fondazioni, a essere controllate dal capitale privato, e dal potere esecutivo».

Montanari ha anche citato il neo vice presidente degli Stati Uniti J. D. Vance, che nel 2021 pronunciò un discorso intitolato “Le università sono il nemico”. «Penso che il modo di fare (di Orbán) debba essere un modello per noi – aveva detto Vance – Non eliminare le università, ma dare loro la possibilità di scegliere tra la sopravvivenza e l'adozione di un approccio all'insegnamento molto meno parziale». Nelle università ungheresi dal 2014 «è stata imposta la figura del cancelliere di nomina governativa, che ridimensiona l’autorità del rettore eletto dalla comunità, assumendo pieni poteri su bilancio e personale».

Nel 2018 si è invece intervenuti sui contenuti, proibendo gli studi di genere. Montanari si è fermato all’Ungheria, ma è interessante guardare anche cosa accade in quei Paesi i cui leader aspirano a una nuova internazionale delle destre, che includerebbe l’Italia di Giorgia Meloni. Nell’Argentina di Javier Milei, la principale agenzia scientifica nazionale (Conicet) ha ricevuto per il 2024 lo stesso budget che aveva l’anno precedente: con l’inflazione al 50 per cento però equivale a un dimezzamento netto delle risorse. Salito al potere, Milei ha invece dissolto il ministero di Scienza, tecnologia e innovazione, sostituendolo con un segretariato con meno potere e meno fondi. Sulla piattaforma X ha sostenuto che i ricercatori finanziati da Conicet sono pigri e non si guadagnano il proprio stipendio.

Lo sfrenato liberismo economico che guida le sue politiche lo ha portato a dire che il cambiamento climatico è solo una menzogna socialista, in linea con il negazionismo di Donald Trump, che vede nei limiti alle emissioni insopportabili ingerenze statali che minacciano la libertà economica individuale. Anche l’atteso efficientamento della spesa pubblica statunitense porterà gravi tagli alla ricerca: con Robert Kennedy jr al dipartimento della Salute, tra le vittime designate c’è l’Nih (National Institute of Health), che eroga circa la metà dei fondi alla ricerca di base negli Stati Uniti.

Le frequentazioni della presidente Meloni confermano la tendenza di un’erosione della fiducia nella scienza, che non lascia ben sperare per il futuro della ricerca in Italia. In un’epoca in cui il valore aggiunto di beni e servizi è determinato dalla presenza di innovazione, tagliare la ricerca equivale ad arrestare lo sviluppo del Paese. Verrebbe da dire: se pensate che la ricerca sia costosa, provate l’ignoranza.

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