Immaginate di organizzare un viaggio molto lontano per l’estate, di salutare parenti, colleghi e amici con un «ci vediamo la prossima settimana», e poi di rimanere bloccati in quel posto per mesi, fin dopo l’estate, dovendoci festeggiare anche il Natale, in attesa di un passaggio di ritorno che arriverà solo a febbraio 2025. È così che si può raccontare la storia di Butch Wilmore e Sunita Williams, che sono rimasti bloccati sulla Stazione spaziale internazionale.

Ma anche se questa immagine è parecchio evocativa, è anche imprecisa, perché non tiene conto del fatto che stiamo comunque parlando di una missione spaziale: e che loro due – gli astronauti in questione – erano ben consapevoli dei rischi a cui andavano incontro. Entrambi sono professionisti dell’esplorazione spaziale: Willmore aveva già passato sei mesi sull’Iss. Williams aveva invece battuto diversi record, fra cui quello suggestivo di aver partecipato a una maratona nello spazio. Mentre si correvano i 42 chilometri di gara a Boston, lei aveva fatto lo stesso in orbita, con un tapis roulant.

Questa storia fa però i conti con la nostra percezione dell’ignoto e dei rischi: sul fatto che pensiamo che una missione nello spazio oggi abbia tutto già perfettamente calcolato e che nulla dovrebbe andare storto, che otto giorni nello spazio non possono diventare svariati mesi. Il punto è che invece può succedere, e anche questo è parte del fascino di questa continua sfida fra l’uomo e i limiti della propria tecnologia, con il progresso che è fatto di continui test e continui imprevisti.

Bloccati nello spazio

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I due astronauti hanno raggiunto la Stazione spaziale internazionale a giugno a bordo della navicella spaziale Starliner di Boeing, nel primo viaggio con a bordo un equipaggio. L’obiettivo principale della missione della Nasa era proprio questo: verificare che tutto andasse secondo i piani per certificare che un’altra azienda privata, dopo SpaceX di Elon Musk, può regolarmente viaggiare nello spazio.

Ma qualcosa è andato storto, fin dal viaggio di andata. In particolare, ci sono state delle perdite di elio dalla capsula e altri problemi ai propulsori di controllo della reazione, evidenziati proprio al momento di raggiungere la Stazione. A quel punto, i due astronauti hanno dovuto attendere il responso: la Nasa avrebbe potuto decidere di farli tornare a Terra a bordo di Starliner, al suo rientro sulla Terra (che comunque ci sarà regolarmente, a inizio settembre). O attendere di ricevere “un passaggio” da SpaceX, al termine di una missione già prevista per l’anno prossimo. È così che gli otto giorni sono diventati otto mesi.

Lo scorso weekend i responsabili della Nasa hanno infatti deciso all’unanimità di non correre alcun rischio per l’incolumità degli astronauti. In altre parole, Willmore e Williams dovranno attendere l’arrivo dalla navicella di Elon Musk. Ed è un enorme danno d’immagine per la Boeing, salvata dal principale concorrente sul mercato.

«Il volo spaziale è rischioso, anche quando è più sicuro e di routine. Un volo di prova, per sua natura, non è né sicuro né di routine», ha detto l’amministratore della Nasa, Bill Nelson. «La decisione di tenere Butch e Suni a bordo della Stazione spaziale internazionale e di riportare a casa lo Starliner della Boeing senza equipaggio è il risultato del nostro impegno per la sicurezza: il nostro valore fondamentale e la nostra stella polare».

Percezioni

Eppure questa “stella polare” rimane il grande interrogativo che circonda da sempre le missioni nello spazio. Fin dalle immagini più evocative della storia: l’esplosione dello Space Shuttle Challenger la mattina del 18 gennaio 1986. E il disastro del 2003, con il Columbia che si disintegrò nel cielo del Texas.

Ma questa storia ricorda ancora di più quella più celebre dell’Apollo 13, resa al cinema dal film di Ron Howard con Tom Hanks. In quel caso l’equipaggio era diretto sulla Luna, ma un guasto impedì di raggiungere la destinazione e rese il rientro a Terra estremamente complicato – e quindi anche epico, secondo il linguaggio di Hollywood.

Il punto è che ora l’esplorazione spaziale sta affiancando le missioni scientifiche all’avanzamento degli interessi privati. Ogni missione può essere un passo in avanti o indietro verso l’obiettivo di creare il turismo in orbita. E in questo conta non solo la percezione del rischio che riguarda gli addetti ai lavori, ma anche quella – spesso molto più superficiale – degli ultraricchi che, in un futuro molto prossimo, saranno i principali viaggiatori dello spazio.

Taxi spaziali

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È per questo che assume un qualche senso l’immagine di una vacanza finita male, che avevamo usato in introduzione di questo articolo. Perché è vero che per gli astronauti l’esilio cambia poco, anzi è facile immaginare che sia stato accolto con un certo entusiasmo. Williams, oltre ad aver partecipato a una maratona spaziale, ha completato anche un triathlon in orbita (davvero!): nel settembre del 2012 ha simulato una nuotata di 750 metri, una pedalata di 29 chilometri e una corsa di altri 6 chilometri e mezzo. Che sarà mai otto mesi extra sulla Stazione spaziale?

È vero anche che per la Nasa questo significa dover rivedere qualche piano per future missioni spaziali, ma anche da questo punto di vista non ci dovrebbero essere grosse conseguenze, visto che non dovrebbe essere necessario nemmeno un programma speciale di razionamento delle risorse.

Quello che cambia davvero è però la percezione pubblica di questa vicenda. Lo Starliner della Boeing viene spesso definito – anche dalla Nasa – come un futuro “taxi spaziale”, che dovrà trasportare agilmente gli astronauti in orbita (insieme ai turisti). Alla luce di quello che è successo, forse il termine “taxi” non è proprio il migliore.

Nuove aspettative

In passato l’esplorazione spaziale era percepita come una grande avventura nell’ignoto, in cui in un certo senso il rischio faceva parte del programma. Nel contesto della guerra fredda, riuscire ad affrontare il pericolo – e le sue inevitabili conseguenze – faceva parte della natura stessa delle varie missioni.

Oggi la natura scientifica dei viaggi nello spazio non è probabilmente cambiata, ma si è modificata la percezione di chi sta a osservare, dalla Terra. Ed è un aspetto che rischia di influenzare in maniera decisiva gli investimenti privati. La Nasa, che fa da arbitro e da partner nella contesa fra Boeing e SpaceX, ha tutto l’interesse perché questo settore si sviluppi ulteriormente.

Per questo, nel 2014 aveva firmato con Boeing un contratto da 4,2 miliardi dollari per una capsula che garantisse il viaggio verso l’Iss. E aveva fatto un accordo simile, da 2,6 miliardi di dollari, con Musk.

Al momento, fra i due contendenti, il secondo sembra decisamente in vantaggio.

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