Il premier israeliano non può accettare un negoziato che, con la pace, porti alla nascita di uno stato palestinese. Il conflitto permanente garantisce due vantaggi alla destra di governo. Ma sta portando a uno scontro tra ebrei
Sarà anche vero che con la guerra di Gaza Israele si è infilato «nella trappola di Hamas», come dice Giorgia Meloni. Ma la metafora andrebbe usata con cautela, vuoi perché “in trappola” si trovano soprattutto gli abitanti della Striscia, vuoi perché sono per gran parte israeliani i materiali con i quali è stato costruito il labirinto da cui Benjamin Netanyahu ora non sa più come uscire.
Se pure gli americani riuscissero a forzarlo a uno scambio di prigionieri, ostaggi contro detenuti, mai accetterebbe la condizione per la pace, un negoziato che contemplasse l’ipotesi di uno stato palestinese, rifiutato di nuovo dalla Knesset pochi giorni fa con una mozione approvata a larga maggioranza (67 favorevoli, 9 contrari, gli altri astenuti).
Nel testo la West Bank è richiamata implicitamente con la terminologia biblica, «terra d’Israele», che appare nel programma del Likud già nel 2017. In altre parole la destra israeliana si è già annessa de facto territori cui adesso dovrebbe rinunciare. E li ha annessi perché ritiene le appartengano per un diritto storico fondato su un testo sacro, dunque perché così vuole dio. A ben vedere “la trappola” è nella Bibbia ebraica, o più esattamente in una sua interpretazione “politica”.
Guerra a oltranza
Per una destra i cui media spesso leggono lo scontro in corso attraverso il paragone con vicissitudini occorse nella notte dei tempi e tramandate dalle Scritture, rinunciare a una parte anche piccola della terra di Canaan equivale a tradire il progetto millenario che condusse laggiù le antiche tribù ebraiche al comando di Mosè e di Giosuè.
Se poi aggiungiamo gli interessi profani in gioco (le somme investite dai coloni per edificare la casa, i terreni di cui l’ala più pratica del movimento vorrebbe appropriarsi) non è difficile prevedere che anche solo l’ipotesi di negoziare territori scatenerebbe reazioni violentissime.
Nella West Bank insorgerebbe l’ultradestra messianica, armatissima e collegata alla polizia e a segmenti dell’esercito; nella Striscia probabilmente alcune unità, soprattutto tra le truppe d’élite, rifiuterebbero di abbandonare il terreno. Prodromi di una guerra civile.
Non è soltanto per salvare se stesso se Netanyahu opta per l’altra soluzione, la guerra a oltranza contro Hamas, Hezbollah, Huthi, l’Iran e quant’altro, con la speranza di obbligare gli occidentali a schierarsi dalla sua parte.
La bomba atomica
Ma anche la soluzione della guerra ad oltranza appare rischiosissima. Dopo dieci mesi di bollettini trionfali che valutavano in cifra tonda le perdite inflitte quotidianamente al nemico (un giorno 300, un altro 500) uno studio americano rivela che dei 24 battaglioni di Hamas ben 8 sono ancora in grado di attaccare le truppe israeliane, 13 sono parzialmente operativi e solo 3 sono stati tolti di mezzo.
Nel nord Hezbollah ha missili in grado di eludere il sistema antimissile israeliano. Perfino i droni dei remoti Huthi ora riescono a bucare le difese di Tel Aviv. In altre parole Israele ha perso quel deterrente che una scuola di relazioni internazionali chiama “escalation dominance”, ovvero la capacità di intimorire gli avversari in virtù di una straripante superiorità militare.
Le rimane il vantaggio strategico garantito dalla bomba atomica: ma fino a quando? In 6-24 mesi anche l’Iran potrebbe avere l’arma nucleare, e già ora comunque fa sapere di disporre di missili di nuova tecnologia capaci di devastare un paese piccolo come Israele.
Tortura psicologica
Da qui le apprensioni con cui gli israeliani si addormentano da due settimane, una sorta di tortura psicologica che Teheran potrebbe far durare a lungo. Se il massiccio attacco notturno temuto finora sarebbe un evento spaventoso, ancor più terrificante è che l’attacco non avvenga, perché l’incertezza dilata l’angoscia dell’attesa e il disordine nell’economia.
Già adesso i razzetti di Hezbollah impediscono a 60mila israeliani di tornare nelle loro case, prossime al confine con il Libano. E finora i bombardamenti israeliani su basi e rampe della poderosa milizia sciita non l’hanno minimamente fiaccata.
Però una condizione di guerra permanente garantirebbe due vantaggi alla destra israeliana. Innanzitutto le permetterebbe di rafforzare la pressione militare ed economica sui palestinesi affinché emigrino.
Nella West Bank centinaia di migliaia hanno già intrapreso la strada dell’esilio. A Gaza altre centinaia di migliaia, potendolo, già adesso lascerebbero subito quella distesa di macerie. Il fracasso e il caos di una guerra regionale offrirebbero pretesti per organizzare espulsioni più massicce. Per quanto la destra israeliana mai lo confesserebbe, la “pulizia etnica” è il corollario inevitabile e sottaciuto di qualsiasi soluzione che rifiuti la nascita di uno stato palestinese (o più esattamente di uno stato palestinese confederato con lo stato ebraico, l’unica formula che permetterebbe ai coloni di restare nei loro insediamenti).
Il problema è che ormai una “pulizia etnica” senza clamori è difficilmente praticabile. Verrebbe smascherata dalla giustizia internazionale, che il governo israeliano sembra temere molto più di quanto dichiari.
Anche da qui, probabilmente, le circa 300 inchieste per crimini di guerra aperte a tambur battente dalla giustizia militare israeliana, utili a dimostrare che la Corte penale internazionale non può far valere il principio di complementarità (per il quale la Cpi può indagare reati solo se lo stato che ha giurisdizione sul caso non persegue quei crimini) e dunque deve astenersi.
Compressione dei diritti
L’altro vantaggio offerto alla destra da una guerra prolungata sarebbe l’ulteriore compressione del diritto e delle libertà individuali a vantaggio di un’Israele definitivamente modellata come una «Sparta con la kippah», secondo la definizione dello storico David Ochana.
Ma a quel punto l’altra Israele, la minoranza liberale, spesso con doppio passaporto, potrebbe ritenersi fuori posto e decidere che quell’ibrido tra una caserma e un parco a tema biblico non ha più molto a che fare con la nazione immaginata dal sionismo laburista e liberal.
Alla fine il conflitto arabo-israeliano si misurerebbe con i numeri dei palestinesi espulsi e degli israeliani trasferitisi all’estero. La contabilità di una doppia, rovinosa sconfitta.
Malgrado la propaganda israeliana si sforzi di mascherare questa realtà con narrazioni magniloquenti, è sempre più evidente che in margine alla guerra di Gaza si è aperto un conflitto politico che oppone ebrei a ebrei. E quelli che stanno al governo e decidono sono quelli che stanno completando «il disfacimento di Israele», secondo il titolo profetico di un saggio di Foreign Affairs firmato da due accademici ebrei americani, Ilan Baron e Ilai Saltzman.
Per i quali si può ancora evitare la metamorfosi dello stato ebraico in qualcosa che «distruggerebbe la visione umanistica che ispirò tanti dei suoi fondatori e sostenitori nel mondo». Ma Israele dovrebbe trovare la forza per compiere svolte radicali, e compierle in fretta: secondo un sondaggio recente tra i giovani israeliani, tre su quattro si dichiarano “di destra”, che in Israele vuol dire di estrema destra. Pessimo auspicio.
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