«Non succederà nulla oggi». Così il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano se la rappresaglia israeliana all’attacco di Teheran di martedì fosse imminente. Biden ha anche detto che gli Usa stanno discutendo con Israele di un possibile attacco ai siti petroliferi iraniani, come parte della risposta al lancio di 200 missili balistici, per lo più intercettati dal sistema di difesa di Tel Aviv, che martedì hanno ucciso una persona e danneggiato alcune infrastrutture israeliane.

La guerra delle dichiarazioni

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito il regime degli ayatollah che avrebbe pagato per il «grosso errore» commesso, lasciando il mondo a interrogarsi su che tipo di risposta arriverà e quando. Molti analisti hanno anche fatto notare come l’attacco iraniano possa rappresentare il casus belli, che potrebbe portare Israele a bombardare i siti nucleari iraniani, per scongiurare il pericolo che Teheran possa dotarsi di armi atomiche.

Il giorno prima Biden si era detto contrario a tale ipotesi, sottolineando che Israele ha diritto a rispondere, ma che la risposta dovrà essere proporzionata, aggiungendo che i paesi del G7 sono d’accordo con questo principio.

Dal canto suo, la leadership iraniana ha dichiarato più volte in questi ultimi giorni che avrebbe a sua volta risposto alla rappresaglia israeliana. «Qualsiasi tipo di attacco militare, azione terroristica o atto che superi le nostre linee rosse causerà una reazione decisa da parte delle nostre forze armate» ha fatto sapere da Doha il presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Non solo, secondo quanto riferisce Al Jazeera, l’Iran avrebbe inviato un messaggio agli Stati Uniti, tramite il Qatar, affermando che «la fase di autocontrollo unilaterale è terminata».

Il fronte libanese

Nel frattempo, i combattimenti in Libano sono continuati. L’aviazione israeliana ha bombardato Beirut per quasi tutta la giornata, colpendo i quartieri generali dell’intelligence di Hezbollah, mentre l’invasione a sud del Paese avanzava.

Interi quartieri della città erano avvolti dal fumo delle esplosioni, in seguito ai bombardamenti, che secondo l’esercito israeliano hanno colpito personale operativo dell’intelligence del Partito di Dio, centri di comando e unità per la raccolta di intelligence sull’Idf e lo Stato di Israele. Secondo alcune testimonianze, anche l’edificio ospitante l’ufficio per le relazioni coi media di Hezbollah sarebbe stato colpito dai bombardamenti sulla capitale libanese, senza però danneggiare il piano dove si trovava l’ufficio del gruppo paramilitare.

Vari negozi e uffici sarebbero presenti nello stesso fabbricato, che si trova vicino a vari edifici residenziali. Molti Paesi stranieri hanno continuato ad evacuare i propri cittadini da Beirut. Nel pomeriggio di giovedì 3 ottobre, l’Italia si stava organizzando per rimpatriare circa 180 connazionali attraverso un volo charter speciale.

Mentre Beirut veniva bombardata, l’offensiva di terra degli israeliani nel sud del Paese avanzava. L’Idf ha intimato agli abitanti di 25 zone di quel territorio di scappare verso nord, dicendogli che «ogni spostamento verso sud li avrebbe messi in pericolo». Questo porta a 70 il totale di città e villaggi colpiti dall’ordine di evacuazione israeliano.

Le zone evacuate comprendono anche la città di Nabatieh, una delle più grandi del sud del Paese, con una popolazione stimata tra i 60.000 e 100.000 abitanti prima della guerra. Gli sfollati in Libano sono ormai circa 1,2 milioni, secondo gli ultimi dati del governo del Paese, che conta cinque milioni e mezzo di abitanti. In questo ultimo anno di conflitto tra Israele ed Hezbollah, sono morti quasi 2mila libanesi, inclusi 127 bambini, ha fatto sapere il governo.

Malgrado l’Idf abbia parlato di un’operazione di terra limitata e mirata, l’esercito ha schierato una quinta divisione al confine col Libano, un segnale interpretato da molti come preparativo di una battaglia difficile e prolungata contro combattenti addestrati e ben armati. L’obiettivo dichiarato di tale offensiva è quello di eliminare i tunnel scavati da Hezbollah nella zona sud, i depositi di armi e i lanciarazzi, da cui sono partiti gli ordigni in questo ultimo anno che hanno forzato Tel Aviv ad evacuare decine di migliaia di residenti del nord di Israele.

I bombardamenti israeliani hanno ucciso 28 operatori sanitari, ha detto l’Organizzazione mondiale della sanità. Molti operatori, peraltro, non stanno lavorando perché sono fuggiti dalle aree bombardate da Israele, mentre una grossa fornitura di medicinali al Libano pianificata per oggi non potrà essere effettuata a causa delle restrizioni ai voli verso il Paese.

Un raid israeliano ha invece ucciso quattro paramedici della Croce Rossa libanese vicino al villaggio di Tabyeh. Il loro convoglio è stato colpito mentre stavano evacuando alcuni feriti da quella zona, scortati dall’esercito libanese e malgrado avessero coordinato i propri movimenti con le forze di pace delle Nazioni Unite.

L’Idf ha anche rivelato di aver ucciso tre mesi fa il primo ministro de facto della Striscia di Gaza, Rawhi Mushtaha, importante membro di Hamas, considerato il braccio destro del leader dei miliziani Yahya Sinwar. «Mushtaha era considerato la figura più senior dell’ufficio politico di Hamas a Gaza e durante la guerra manteneva il controllo di Hamas sui civili, mentre portava avanti atti terroristici contro Israele» ha detto l’Idf.

Malgrado l’attenzione si concentri ormai sul fronte nord e l’intensificarsi del conflitto con l’Iran, gli scontri a Gaza continuano. Questa settimana, l’Idf in coordinamento con gli Stati Uniti ha liberato una donna di 21 anni rapita dai militanti dello Stato islamico in Iraq dieci in anni fa e poi portata a Gaza.

Il salvataggio della donna appartenente alla minoranza religiosa degli yazidi è avvenuto dopo quattro mesi di tentativi, resi molto difficili dalla guerra in corso.

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