Donald Trump ha scelto Marco Rubio come segretario di Stato, secondo le informazioni raccolte dal New York Times e altri media americani. Le voci sulla sua candidatura circolano da settimane, ma l’idea era invisa agli adepti più fedeli del verbo isolazionista di Trump, perché il curriculum di Rubio è costellato di prese di posizione aggressive e internazionaliste, con toni da tifoseria per l’espansione del ruolo della Nato e incitamenti alle amministrazioni di ogni colore a intervenire direttamente in qualunque conflitto.

Il mondo trumpiano lo ha spesso spregiativamente additato come un “neocon”, legandolo alla tradizione interventista e civilizzatrice presente in entrambi gli schieramenti ma che ha dominato in particolare negli anni di George W. Bush e delle guerre in Afghanistan e Iraq. 

Nell’ultimo decennio il senatore si è avventato come un falco su tutti gli scenari conflittuali possibili, rimproverando gli inquilini della Casa Bianca per non aver fatto nulla, quando hanno scelto l’inazione, o per non aver fatto abbastanza, nei casi in cui invece si sono intromessi.

Quando Vladimir Putin ha annesso la Crimea nel 2014, ha parlato di una «sfida diretta e una minaccia di lungo periodo all’ordine internazionale successivo alla Seconda guerra mondiale per il quale gli Stati Uniti hanno fatto grandi sacrifici». Non ha invocato soltanto devastanti sanzioni per la Russia, ma ha anche chiesto l’apertura immediata delle porte della Nato a nuovi membri in cerca di protezione e addirittura ha proposto l’interruzione delle relazioni diplomatiche con Mosca.

Ha criticato aspramente Barack Obama per non essere intervenuto in Siria contro il regime di Bashar el Assad e poi ha attaccato anche Trump per avere stabilito nell’area un’alleanza di fatto con la Russia per combattere lo Stato islamico. Ha aggredito con ineguagliata foga verbale il regime iraniano, che è guidato da una «visione apocalittica» e pertanto è estraneo a ogni interazione politica fondata su razionalità e interesse.

La conversione

Ma negli ultimi tempi le cose sono cambiate. “Little Marco”, come lo chiamava Trump quando lo ha calpestato alle primarie del 2016, è diventato grande. Ha gradualmente messo da parte le velleità internazionaliste e si è ordinatamente allineato al verbo trumpiano sui dossier più importanti della politica estera. Sulla guerra in Ucraina ora riconosce che è arrivata a una fase di stallo e «deve arrivare a una conclusione» attraverso un negoziato che, fra le altre cose, escluda l’ingresso di Kiev nella Nato.

Rubio, insomma, ha deciso di non fare la fine di Liz Cheney e degli altri falchi che sono stati spazzati via da Trump dopo essersi messi di traverso. Si è cordialmente piegato allo spirito repubblicano del tempo, temperando l’idealismo di una volta con massicce dosi di America First. E per questo viene ricompensato con un ruolo di primissimo piano.

C’è solo una figura che Trump apprezza di più dell’inflessibile lealista sempre pronto a dire sì: il convertito sempre pronto a dire sì. Quello di Rubio è un percorso per certi versi simile a quello di JD Vance, che ha ricucito la relazione con Trump dopo averlo criticato aspramente. Il vicepresidente eletto, tuttavia, aveva abbandonato le pulsioni neoconservatrici quando ha servito con la divisa dei Marines in Iraq.

La rapacità di Rubio è rimasta intatta su alcuni selezionati temi allineati con l’agenda di Trump. Negli ultimi anni è stato un acceso sostenitore di una politica industriale e commerciale aggressiva nei confronti della Cina e al Senato ha promosso iniziative per limitare l’influenza di Pechino. Ha guidato la commissione giunta fra Congresso e Casa Bianca per modellare politiche aggressive verso la Cina e ha scritto un disegno di legge per fermare il commercio di prodotti fatti sfruttando il lavoro della minoranza oppressa degli uiguri. Su questo fronte si troverà in ottima compagnia con il falco anticinese Mike Waltz, deputato (a sua volta della Florida) che Trump ha scelto come Consigliere per la sicurezza nazionale.

Anche sul Venezuela Rubio tiene una linea intransigente. Nel 2019 è stato il capofila di un’iniziativa politica per persuadere Trump a imporre pensanti sanzioni nei confronti del regime di Nicolas Maduro, nella convinzione che il cambio di regime è «solo questione di tempo».

Segnale a Israele

Scegliendo Rubio, Trump dà anche un segnale a Netanyahu. Un segnale di totale sostegno al conflitto e alle iniziative nei confronti dell’Iran, dato che il senatore ha mostrato di essere senza esitazioni a favore delle decisioni di Tel Aviv e non pare sulla carta disposto a mettere pressione su un alleato che finora ha ignorato gli inviti alla prudenza e alla misura portati da Washington. La linea di Rubio è che gli oltre 35mila morti fatti nella sola Striscia di Gaza sono interamente da imputare ad Hamas, ed è diventato virale lo scorso anno un acceso confronto con un gruppo di attivisti pro Palestina in cui Rubio sostiene la sua posizione. Al confronto, Antony Blinken è l’equilibrato interprete di una linea moderata.

Nel circolo di Netanyahu la notizia è certamente apprezzata. Ma non è un segnale che può piacere agli arabi-americani del Michigan che hanno appena punito alle urne Kamala Harris e l’amministrazione Biden per la linea filoisraeliana sul conflitto. 

Sicurezza nazionale

L’altra nomina trumpiana di giornata, riportata dalla Cnn e da altri media, è quella del dipartimento della Sicurezza nazionale. Sarà affidato a Kristi Noem, governatrice del South Dakota, fedelissima di Trump e figura che ha messo al centro del suo messaggio il contrasto all’immigrazione, tuonando contro «l’invasione» di clandestini dal confine. Al dipartimento che dirigerà fanno capo diverse agenzie federali, fra cui la Fema (una protezione civile con più fondi e poteri), e attraverso queste potrà agire in coordinamento con lo “zar” dell’immigrazione, Tom Homan, per militarizzare il confine meridionale.

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