Dopo la sentenza nei confronti del tycoon per i pagamenti alla pornostar durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 è arrivata la reazione quasi unanime del partito: «Lo aiuterà a vincere». Nel torrenziale discorso del giorno dopo il candidato attacca un po’ tutti. La campagna ha raccolto 35 milioni in un giorno. Solidarietà dall’estrema destra globale, da Putin a Salvini (ma non Meloni)
«Se lo hanno fatto a me possono farlo a chiunque», ha esordito Donald Trump nelle sue dichiarazioni di ieri, ritornando al format dell’estenuante comizio elettorale per commentare la sua condanna, ordita naturalmente dal «presidente e un gruppo di fascisti».
Nel tribunale distrettuale di Manhattan la sentenza di colpevolezza per Donald Trump è arrivata nel pomeriggio di giovedì dopo oltre dieci ore di riunione della giuria newyorchese. E subito dopo è arrivata la reazione quasi unanime dei repubblicani. Il verdetto di condanna è stato applicato per tutti i capi d'accusa, 34 in tutto, dando così ragione alla linea del procuratore Alvin Bragg.
Quindi l’ex presidente ha falsificato dei documenti ufficiali riguardanti le sue aziende per pagare 130mila dollari alla pornostar Stormy Daniels nel luglio 2016 e per coprire la loro relazione extraconiugale risalente al 2006, con lo scopo di tenere all’oscuro l’opinione pubblica nel bel mezzo della campagna elettorale di quell’anno.
Ovviamente l’ex presidente, uscendo dal tribunale, ha prontamente dichiarato di essere «un uomo molto innocente» e a ruota sono arrivate anche le conseguenze politiche. Una era quella che il tycoon si attendeva, un boom di donazioni al suo sito che si sperano esclusive (lo staff della campagna presidenziale ha avvertito altri candidati repubblicani di non cercare di sfruttare quest’onda per raccogliere fondi in proprio, ha avvertito con tono minaccioso il campaign manager Chris LaCivita) tanto da farlo andare in crash nella serata di giovedì.
Le reazioni
Uno dei primi ad arrivare in soccorso dell’ex presidente è stato lo speaker Mike Johnson, che nelle scorse settimane era apparso tra il pubblico del processo newyorchese per farsi notare tra i sostenitori del tycoon. Ieri ha svestito i panni istituzionali di uno speaker apprezzato anche dagli avversari per la sua correttezza ed educazione per tornare a indossare quelli di “Maga Mike”, ovvero quelli di un deputato che in precedenza era noto per la sua vicinanza alla destra radicale e al nazionalismo cristiano. Ha scritto in una nota che la giornata di giovedì è «un giorno vergognoso per la storia americana» e che il presidente Trump «farà giustamente appello contro questo verdetto assurdo e VINCERÀ (scritto in maiuscolo)».
Con lui anche il resto della leadership della Camera dei Rappresentanti statunitense a partire dal suo vice, il leader di maggioranza Steve Scalise che ha detto che «la sentenza non resisterà a un appello» e che il processo è stato istituito soltanto per «interferire con il risultato delle elezioni», seguito da un altro membro del gruppo dirigente, il deputato moderato del Minnesota Tom Emmer che ha definito quando avvenuto a New York «la più grande impostura mai creata dai democratici», alludendo al fatto che Bragg è stato eletto tre anni fa con la promessa che «sarebbe andato alle calcagna» di Trump.
Decisamente più netti sono i toni della deputata newyorchese Elise Stefanik: «La sentenza di oggi mostra quando sia diventato corrotto, truccato e armato contro i repubblicani il sistema giudiziario statunitense sotto Joe Biden e i democratici». Tra i semplici eletti si è andati anche oltre: il rappresentante del Wisconsin Derrick Van Orden ha postato su X, la piattaforma un tempo nota come Twitter, una bandiera americana che incorpora una falce e martello nel campo delle stelle scrivendo un commento che afferma: «I democratici hanno messo l’America allo stesso livello della Russia sovietica», mentre l’ipertrumpista Marjorie Taylor Greene ha postato un vessillo statunitense rovesciato che echeggia il movimento “Stop the Steal”, uno degli attori responsabili dell’assalto al Campidoglio.
Anche al Senato c’è stata una levata di scudi, anche se tra i membri del gruppo il trumpismo ortodosso non è ancora maggioritario, pur potendo contare su una pattuglia di accesi sostenitori. Partendo dai due candidati principali alla successione al leader Mitch McConnell.
Il texano John Cornyn ha detto che «ora più che mai i repubblicani devono unirsi intorno a Trump e riconquistare la Casa Bianca e la maggioranza al Senato per riportare il paese sulla giusta via» a cui ha fatto subito eco il suo avversario John Thune del South Dakota che ha rincarato la dose: «Il processo era politicamente motivato sin dall’inizio». Anche lo stesso McConnell, che notoriamente disprezza l’ex presidente, ha postato una nota sui social molte ore dopo dicendo che Trump «non avrebbe mai dovuto essere imputato» e che ribalterà le accuse in appello.
Una dichiarazione molto tiepida, così come appare gelida quella dell’ex governatore del Maryland Larry Hogan che deve affrontare una difficile campagna elettorale per un seggio al Senato in uno stato profondamente dem: «Rispettate il verdetto e il sistema giudiziario». Stessi toni da parte di John Bolton, già consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, che ha invitato il partito repubblicano «a cambiare passo» e a non nominare «un condannato». Sono però voci isolate. Il tono generale è quello impostato da un altro senatore, Lindsey Graham del South Carolina, che ha detto che la condanna «lo aiuterà a vincere».
E di sicuro alcune voci sembrano andare verso un effetto galvanizzante dei supporter anche tiepidi, come quello della senatrice moderata del Maine Susan Collins che ha detto che «il procuratore ha indetto il processo solo perché l’imputato si chiama Donald Trump». E i dati sulle donazioni sembrano dar ragione a questa linea anche se bisogna valutare alcuni fattori che potrebbero contare molto in un’elezione che si giocherà sul filo di lana. Secondo i sondaggi un verdetto di colpevolezza impatterà anche tra i sostenitori di Donald Trump: una rilevazione Quinnipiac stima che un 6 per cento di questi potrebbe scegliere di non votarlo.
Chi sostiene l’ex presidente però ribatte dicendo che questi astenuti verrebbero compensati dalla maggiore affluenza alle urne, tesi sostenuta dall’ex membro dello staff presidenziale di George W. Bush Scott Jennings in un editoriale sul Los Angeles Times dove scrive che «molti repubblicani che non digeriscono Trump ora si sentono in dovere di votarlo».
Anche se in fin dei conti ci si trova in un territorio sconosciuto anche per Trump: non è detto quindi che il boom di donazioni e la corsa a dichiarargli sostegno di queste ore si trasformeranno in voti decisivi per le elezioni di novembre.
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