Dal 1959 alla fine del Novecento, il dibattito pubblico sulle vicende politiche dell’America latina, in Italia e non solo, ha spesso e volentieri riguardato Cuba. L’attenzione si è concentrata sulle principali tappe dell’evoluzione – e involuzione – della sollevazione dei barbudos e sui suoi due principali interpreti, Ernesto Che Guevara e, soprattutto, Fidel Castro, da alcuni ben presto tacciato di essere un dittatore comunista, e da molti altri inserito, ancora in vita, nel pantheon dei miti latinoamericani. Ciò che è certo, è che quella cubana fu una rivoluzione a tutti gli effetti, che avrebbe avuto un impatto senza precedenti, sul piano continentale e globale.

A fare ombra a Castro e Cuba, almeno nell’immaginario collettivo della sinistra latinoamericana e mondiale, non ci è riuscito nessuno nel corso del tempo. Solo pochi altri paesi, eventi e personalità politiche ci sono andati vicino. Tra questi, i vari movimenti guerriglieri nati dopo la vittoria dei castristi, Unidad popular e Salvador Allende, la rivoluzione sandinista.

Ad ogni modo, archiviata la stagione del conflitto bipolare e mentre si stava per chiudere il secondo millennio, compariva sulla scena politica latinoamericana un militare golpista e profondamente nazionalista, che avrebbe dato nuova linfa al mito dell’America Latina come serbatoio di rivoluzioni. Al principio, ai più non sembrò affatto una novità, peraltro in una regione che, sin dall’Ottocento, aveva visto un interventismo militare ricorrente, sebbene spesso male interpretato e banalizzato.

Invece, dopo aver vinto le elezioni presidenziali nel 1998, Hugo Chávez dimostrò grandi abilità retoriche e un notevole temperamento, e anche di avere le idee piuttosto chiare su come gestire il paese, al netto di un progetto politico ancora fumoso. In ogni caso, misure come la statalizzazione delle principali risorse nazionali o le riforme sociali dirette a migliorare la condizione dei settori popolari, un deciso antimperialismo, la relazione privilegiata con Castro, nonché doti carismatiche fuori dal comune, convertirono il “soldato del popolo” Chávez in un nuovo riferimento della sinistra internazionale. L’America latina tornava ad essere laboratorio politico, almeno nell’immaginario di alcuni settori.

Chavismo

Nel corso dei suoi quasi 15 anni di presidenza, indubbiamente la “rivoluzione bolivariana” di Chávez avrebbe centrato vari obiettivi. Fra questi, un certo miglioramento delle condizioni sociali ed economiche di settori della popolazione fino a quel momento esclusi, una proposta anche interessante – almeno nella fase iniziale – di modello politico, e, in particolare, un notevole protagonismo sul piano internazionale acquisito dal Venezuela sulla base di un progetto contro-egemonico e antiimperialista.

Tuttavia, numerosi sarebbero stati anche i limiti di questa esperienza. Fra questi, la mancanza di un chiaro progetto alternativo di sistema economico e di società; l’assenza di una definita “ideologia” guida, se si eccettua una non ben precisata mezcla di nazionalismo, militarismo e “neo-populismo”; una smisurata dipendenza dalle entrate provenienti dalla vendita del greggio sul mercato mondiale, vero motore del programma chavista; l’indifferenza del regime rispetto alla promozione di trasformazioni strutturali dell’economia nazionale; l’insufficienza di una proposta politica, poco articolata e strutturata sul territorio, accompagnata da un’eccessiva concentrazione del potere nelle mani del suo leader; il ricorso a forzature istituzionali di vario tipo, anche nell’ambito di regole che era stato lo stesso regime a darsi.

Il crollo

Tutti questi limiti sarebbero esplosi, non a caso, dopo la morte di Chávez. Dall’avvento di Nicolás Maduro nel 2013 a oggi, il Venezuela è andato incontro ad un crollo verticale, che ha interessato progressivamente tutti i piani: economico, sociale, politico, di legittimità, interna e internazionale. Il cambio di congiuntura economica regionale e internazionale, di scenario politico continentale e anche il boicottaggio statunitense hanno indubbiamente avuto un peso, ma non bastano a spiegare la deriva assunta dalla revolución bolivariana.

La crisi economica e quella umanitaria senza precedenti, l’immobilismo dell’esecutivo su molti fronti, i tratti sempre più marcatamente autoritari del governo, non si spiegano con tutto questo. Oggi, a distanza di poco più di un quarto di secolo, è possibile rilevare che quel programma e, più in generale, quel progetto di “rivoluzione” hanno pagato lo scotto di una serie di limiti “originari”, e il carattere ambiguo e, a conti fatti, utopico di un progetto rimasto a lungo tale e di cui, oggi, non è rimasto più nulla.

Quindi, progressivamente, il Venezuela è scivolato nel baratro. Ciò è stato evidente dal punto di vista economico sino al 2021, sebbene vada evidenziata una significativa ripresa del PIL nel biennio successivo e che le previsioni per quest’anno indichino un aumento superiore al 4 per cento, la più alta della regione, ma solo grazie all’aiuto di Cina, Russia e Iran.

Che dire, poi, della profonda crisi politico-istituzionale? In tal senso, e sorvolando sulla totale assenza di equilibrio tra i poteri, è sufficiente rammentare che dal 2002, anno del golpe contro Chávez sostenuto dall’allora amministrazione di George W. Bush, a oggi, quasi tutti i leader della composita opposizione – a onore del vero molti di essi impresentabili se non addirittura fantocci, a cominciare da Juan Guaidó – sono stati incarcerati o costretti all’esilio. L’ultimo di questa lunga lista è lo sfidante alle elezioni di luglio, Edmundo González Urrutia, rifugiatosi in Spagna.

Il resto del continente

I mali che affliggono il Venezuela non si limitano a questo. Si è prodotta, inoltre, una impressionante perdita di risorse umane, se è vero che, in special modo nell’ultimo decennio, quasi otto milioni di venezuelani hanno lasciato il paese per recarsi in gran parte nella vicina Colombia, ma pure in Perù, Stati Uniti, Brasile, Ecuador e Cile. Sul piano internazionale e, ancor più degno di nota, regionale, la patria di Bolívar vive un drammatico isolamento politico-diplomatico, accentuatosi a causa delle controverse elezioni presidenziali del luglio scorso.

A sostenere il regime di Maduro resta solo uno sparuto gruppo di stati, fra cui Bolivia, Cuba, Honduras e Nicaragua. Anche quelle nazioni, guidate da leader progressisti, che hanno sostenuto in passato Caracas adesso criticano duramente il governo venezuelano (il Cile di Boric) o mostrano inquietudine e disagio (il Brasile di Lula, la Colombia di Petro e il Messico di López Obrador).

Qui salta agli occhi un’altra differenza sostanziale con Cuba, per restare ai paesi che nel corso del tempo hanno alimentato, a torto o a ragione, divisioni all’interno della comunità latinoamericana. Anche nei momenti più difficili o discutibili della sua politica interna ed estera, l’isola caraibica è sempre stata considerata un attore regionale affidabile e molto stimato, in particolar modo per la serietà del suo corpo diplomatico.

È sufficiente ricordare il ruolo svolto in occasione dell’accordo di pace firmato nel novembre del 2016 tra governo colombiano e Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc). Lo stesso non si può dire del Venezuela.

Nondimeno, risulta del tutto fuori luogo, come purtroppo si fa spesso pure in Italia, tacciare il regime madurista di castro-comunismo, solo ed esclusivamente sulla base dei rapporti diplomatici ed economici molto stretti, questi sì, inutile negarlo, tra Caracas e l’Avana. Se delimitiamo la nostra riflessione alle idee, pratiche e progettualità che consentono a leader, forze politiche e governi di trovare una precisa collocazione nello spettro politico, Maduro e la sua cricca non mettono in pratica nulla dei dettami politico-ideologici della “sinistra”, di sicuro non di quella novecentesca e, sebbene sia più arduo da individuare anche in Europa, del XXI secolo.

Un regime autoritario 

Al di là della martellante retorica presidenziale, delle accuse di imperialismo verso gli Stati Uniti e di quelle di fascismo nei confronti degli avversari interni, retorica e accuse, peraltro, ad uso e consumo di potenziali sostenitori latinoamericani e mondiali, che magari continuano a seguire le vicende venezuelane con i paraocchi, la realtà è molto semplice.

Nonostante l’evidente e precoce ostilità, nonché le ricorrenti interferenze di tutte le amministrazioni statunitensi da Bush jr. in poi, l’ambiguità dell’Unione europea (che non ha riconosciuto la vittoria di Maduro né il candidato dell’opposizione), la propensione al golpismo di ampi settori dell’opposizione venezuelana d’intesa spesso con soggetti esterni, quello di Maduro deve essere considerato nulla di più che un regime autoritario.

Non si deve nemmeno ricorrere alla categoria del populismo, di cui si è abusato sin troppo negli ultimi anni. Civili e militari che governano il Venezuela dal 2013 rappresentano un gruppo di potere che non ha alcuna intenzione di farsi da parte. Sono intenzionati, almeno così appare dall’esterno, quasi esclusivamente a difendere con aggressività e nostalgia un passato non riproducibile nell’attuale contesto interno e internazionale, un passato che, per tanti aspetti, ha il sapore di un’opportunità storica mancata.

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