La gestione dei conti pubblici del governo ha qualcosa di surreale: dal ministro Giancarlo Giorgetti che preannuncia «sacrifici necessari» (che cosa significa?) invece di un piano razionale di misure fiscali, al primo ministro che trova il tempo per discutere di accise sui carburanti senza cognizione di causa (l’aumento sul diesel è una richiesta comunitaria), o per avviare un vacuo dibattito su chi, tra destra e sinistra, aumenti le tasse.

Se si alza lo sguardo si vede che il problema del debito pubblico è comune a tutti i paesi, ancorché in misura diversa, in quanto è una pesante eredità del Covid. Per fronteggiare i costi economici e sociali della pandemia i governi tutto il mondo hanno intrapreso politiche fiscali finanziate col debito che non hanno riscontro nel dopoguerra.

Ma non c’è stato alcun impatto sui mercati finanziari perché le banche centrali hanno assorbito un’enorme mole di titoli pubblici nei loro bilanci, stampando moneta; che ha creato inflazione. Ora l’inflazione è vinta o quasi, ma rimane la montagna del debito pubblico; e le banche centrali hanno cominciato a ridurre lo stock dei loro titoli di stato.

Ricadrà dunque sul mercato l’onere di finanziare i deficit dei paesi, rifinanziare il loro debito in scadenza, e assorbire le vendite delle banche centrali. Come risanare le finanze pubbliche senza il sostegno della politica monetaria, e senza uccidere la ripresa, è oggi il principale problema di politica economica.

Ma anche il maggior rischio finanziario nel prossimo futuro, e già si vedono alcune avvisaglie: nonostante la Fed abbia iniziato la fase di discesa dei tassi a breve con un primo taglio superiore alle attese, il rendimento dei titoli di stato a 10 anni è aumentato di mezzo punto nelle ultime settimane, per l’incertezza sui programmi di entrambi i candidati presidenziali che potrebbero aumentare ulteriormente il disavanzo federale, già oggi oltre il 6 per cento del Pil; un aumento simile a quello dei titoli inglesi a lungo termine nel timore che il nuovo governo laburista finanzi col debito gli investimenti pubblici promessi; e nonostante la discesa dei tassi già avviata dalla Bce, lo spread dei titoli francesi rispetto a quelli tedeschi ha toccato il massimo storico di 80 punti, superando lo spread di quelli spagnoli, e avvicinandosi ai 130 dei Btp, per i rischi politici legati al nuovo governo francese, senza maggioranza all’Assemblea, ma alle prese con un deficit record di 5 per cento del Pil.

Un quadro generale che non ci aiuta perché, oltre a dover adottare le misure per assicurare la sostenibilità del nostro debito, c’è il rischio di subire il contagio di un’eventuale crisi in un altro paese.

ANSA

Il Piano strutturale di bilancio

La ratio del Piano strutturale di bilancio (Psb), previsto dal nuovo Patto di Stabilità e presentato dal governo al parlamento lo scorso 27 settembre, è proprio quello di assicurare gli investitori che spesa e deficit pubblico in tutti i paesi europei seguiranno una traiettoria tale da rendere il debito sostenibile, evitando così rischi di crisi e contagio che metterebbero a repentaglio l’euro. L’enfasi del PSB è poi sul medio termine e sulla flessibilità concessa ai governi, che possono scegliere tra quattro e sette anni per rientrare nei parametri stabiliti dal Patto, onde ridurre il rischio di un costo eccessivo in termini di crescita.

Il Psb mantiene gli obiettivi del 3 e 60 per cento per deficit e debito fissati dal Trattato anche se non si fondano su una solida teoria economica; è inutilmente astruso figlio della burocrazia di Bruxelles; e gli obiettivi da raggiungere nel tempo sono indicati con una precisione che non tiene minimamente conto dell’enorme incertezza che caratterizza la previsione delle variabili macroeconomiche a lungo termine (l’orizzonte del Psb è di sette anni).

Tuttavia, è uno strumento efficace per stabilizzare le aspettative del mercato, perché si basa su due principi semplici e di facile comprensione: perché si riduca il rapporto debito su Pil, ci deve essere un avanzo primario strutturale (saldo tra spesa e imposte, al netto di interessi e dei fattori temporanei) nel tempo; e perché questo accada la spesa pubblica (al netto degli interessi, interventi straordinari e costo della disoccupazione ciclica) deve crescere meno rapidamente del Pil nominale. L’enfasi è quindi sulla traiettoria pluriennale e sulla dinamica strutturale di spese e imposte, per evitare l’abuso di provvedimenti temporanei o dall’efficacia limitata nel tempo.

Le ipotesi del governo

Prima di cominciare a discutere dei singoli provvedimenti che il governo intenderebbe adottare bisognerebbe valutare se le ipotesi sottostanti il Psb e gli obiettivi da raggiungere sono realistici e quindi credibili.

La crescita ipotizzata dal governo per il triennio 2024-2026, rispettivamente dell’1, 1,2 e 1,1 per cento appare ottimistica, sia perché superiori alle stime di consenso (0,8 e 1 per cento per il 2024 e 2025) sia perché dal 2027 in poi si riduce gradualmente fino allo 0,6 nel 2029: col 2027 viene meno il Pnrr, ma viene il sospetto che le stime siano ottimistiche fino al 2026 perché è l’anno in cui il governo si è impegnato a ridurre il deficit sotto al 3 per cento.

Dubbi rafforzati guardando alle fonti della crescita: di qui al 2026, il governo ipotizza che si azzeri il contributo della domanda esterna, per lasciare il traino alla domanda interna (contribuisce per l’1,5 e 1,2 rispettivamente nel 2025 e 2026): ragionevole ipotizzare una frenata delle esportazioni per via dei rischi geopolitici e del rallentamento strutturale cinese, ma è legittimo dubitare una decisa ripresa dei consumi privati visto le incertezze sulle prospettive reddituali, la bassa crescita dei salari, la riduzione del potere di acquisto causato dall’inflazione e la stretta sulla spesa pubblica ipotizzata dal PSB, che cresce cumulativamente di appena il 5 per cento di qui al 2029, rispetto al 20 del Pil nominale.

Noi e gli altri

Un ulteriore punto critico riguarda la dinamica dei tassi: perché si riduca il rapporto tra debito e Pil (a prezzi correnti) è necessario che la spesa per interessi cresca meno del Pil nominale: che è quanto ipotizzato nel PSB fino al 2026, l’anno del deficit sotto al 3 per cento. Dal 2027 invece il rapporto si inverte con gli interessi sul debito che arrivano a crescere fino a un punto percentuale più rapidamente del Pil.

C’è infine la previsione di un avanzo primario che cresce stabilmente di mezzo punto percentuale ogni anno fino al 2029 e che implica un prolungato rigore nel controllo della spesa pubblica e l’adozione di misure strutturali: ma misure come il concordato preventivo biennale o la ventilata tassa temporanea sugli extra profitti sono tutto tranne che strutturali.

La Francia sta facendo di peggio: alle prese con un disavanzo superiore al nostro, tanto da prevedere il rientro del deficit sotto al 3 per cento in sette anni, il governo vuole varare una manovra piena di misure temporanee come il rinvio dell’indicizzazione delle pensioni, l’extra tassa per due anni sugli utili delle grandi imprese, e nei prossimi tre anni una tassa fissa minima per gli individui con redditi elevati.

Fare meglio della Francia non dovrebbe essere un motivo di vanto per noi, ma di preoccupazione perché è facile immaginare che in entrambi paesi una parte consistente dell’aggiustamento verrà da tagli lineari a servizi pubblici come sanità, trasporti, assistenza sociale che non toccano gli interessi specifici di qualche categoria, o direttamente le tasche dei cittadini, ma riducono il benessere collettivo alimentando scontento, nazionalismi e populismi.

In assenza di debito comune sarà poi impossibile che i singoli stati abbiano le risorse necessarie per far recuperare competitività all’Europa, con investimenti in innovazione, tecnologia, difesa e transizione ambientale come previsto dal Piano Draghi.

Ironico che sia proprio la Germania ad opporsi al debito comune, quando ne sarebbe la principale beneficiaria visto che da due anni è in recessione, con un modello economico in crisi strutturale, ma impossibilitato a usare la finanza pubblica per rilanciare l’economia e sostenere la riconversione industriale per via del vincolo costituzionale che limita il suo disavanzo allo 0,5 per cento.

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