Sulla nomina del tedesco Thomas Tuchel come ct dell’Inghilterra si è scatenato uno strano dibattito. Ma la verità è che l’internazionalizzazione ha da tempo rinnovato il calcioinglese. Tanto da renderlo non soltanto un’attrazione pop ma persino il più bello del mondo
Per lui è una cosa semplice, quasi privata. «Da tempo sento un legame personale con il gioco di questo paese, l’Inghilterra», ha detto Thomas Tuchel mentre si presentava al mondo e alla stampa inglese da nuovo ct dei Tre Leoni. «Spero di riuscire a convincervi, voglio dare tutto per questo ruolo».
La bufera gliel’hanno fatta soffiare attorno. Molti volevano un allenatore inglese, ma Tuchel è tedesco, della Baviera. L’ex calciatore Michael Owen ha detto di essere «deluso che il ct non sia un inglese». E Harry Redknapp, altro eroe nazionale, ha sottolineato che voleva un allenatore inglese: «Sono un patriota e credo che l’Inghilterra debba essere allenata da un inglese».
Uno strano dibattito. L’ultimo Englishman che vinse la Premier League fu Howard Wilkinson, con il Leeds. Era il 1991, trentatré anni fa. Di allenatori inglesi nel massimo campionato ne sono rimasti pochi, anzi solamente tre: due lottano per non retrocedere (Dyche all’Everton e O’Neil nel Wolverhampton), mentre il terzo (Howe del Newcastle) cerca gloria in una probabile top ten. Il numero di calciatori che arrivano dall’estero è considerevole (le percentuali superano quelle del campionato italiano). E fino a dodici anni fa l’England non aveva nemmeno un centro tecnico, una sua università del calcio.
Per non parlare dei trofei. L’ultimo è sempre quello: il mitico mondiale del ’66. Tra un po’ saranno passati sessant’anni. Come in quasi tutti gli ambiti della vita, insomma, anche nel calcio inglese si sono cristallizzati una serie di dettami, di valori, di ideologie. Luoghi comuni, più semplicemente. Evidentemente servono anche quelli.
Ma la verità è che da tempo le contaminazioni hanno rinnovato il calcio, anche quello inglese. Tanto da renderlo non soltanto un’attrazione pop ma persino il più bello del mondo secondo gli stessi interpreti: i calciatori. Una disneyland, più o meno, che gli allenatori tedeschi, da Klopp a Tuchel, hanno contribuito a costruire.
La scuola tedesca
È stato però Rangnick il punto di partenza di tutto, l’uomo che ha scosso inavvertitamente la cultura calcistica tedesca nel dicembre del 1998 quando tenne una sorta di seminario tattico su una lavagna nell’istituzione del sabato sera, “Das Aktuelle Sportstudio”, l’equivalente tedesco di "Match of the Day”. Fu una genesi. Il tecnico che allenava l’Ulm, a metà strada nel portare un modesto club dalla terza divisione alla massima serie, spostava i magneti colorati e numerati su una lavagna di fronte al presentatore Michael Steinbrecher. Rangnick non parlò di innovazione, la fece vedere: una difesa a quattro in cui uno dei centrali poteva agire come libero.
Oggi lo fanno tutti, ma Steinbrecher all’epoca si sentì di dover rassicurare i telespettatori. No, la vostra squadra non prenderà una valangata di gol. Stringere gli spazi, creare superiorità numerica: concetti ormai comuni nel linguaggio calcistico moderno, ma estranei alla nomenclatura del calcio tedesco alla fine degli anni Novanta. Rangnick ha fatto scuola. E solo chi si aggiorna può pensare di evolversi.
Le polemiche
A sua immagine e somiglianza sono arrivati Klopp, Nagelsmann e ovviamente Tuchel. Affascinati da quel calcio rigoroso, metodico, preciso, infarciti di questi concetti, molti di loro sono emigrati in Inghilterra. Per diffondere il verbo. A un certo punto, la stampa inglese ha parlato di germanizzazione della Premier. Ma oggi quel processo che ha trovato uno sbocco quasi naturale sulla panchina dei Tre Leoni con Tuchel, terzo allenatore straniero della storia inglese dopo Sven-Goran Eriksson e Fabio Capello, si è aggrovigliato su un discorso para politico.
Un sondaggio del Daily Telegraph ha visto il 67 per cento votare a favore della nomina di Tuchel, il 33 per cento contrario. E i contrari lo sono per la nazionalità del nuovo ct. «C’è un punto serio qui. Il fatto che una simile questione venga sollevata», ha scritto il Guardian. Laburisti e conservatori hanno fatto proprio il dibattito (qualcuno anche in modo maldestro) come in un’arena, come in uno stadio. Jeff Powell, sul Daily Mail, ha scritto che «non abbiamo bisogno di Tuchel, abbiamo bisogno di un patriota».
Ne ha parlato anche il Telegraph: «Il manager dell’Inghilterra deve essere inglese. Altrimenti, non è calcio internazionale». E ancora: «Dispiace dirlo, Thomas Tuchel, allenatore talentuoso, poliglotta e astuto, nato in Baviera, non dovrebbe essere il manager dell’Inghilterra. Sarebbe scortese prendersela con lui. Ha semplicemente accettato un lavoro. Il problema è la federazione».
Anche in Germania hanno fatto la loro parte. La Bild ha parlato di un’Inghilterra «disperata» che si è dovuta affidare a un tedesco. Ancora il Guardian ha fatto notare che il dibattito «dovrebbe essere motivo di sincera preoccupazione per la nazione, anche se viene sollevata come una pigra ripetizione di alcuni vecchi schemi culturali, con una visione della storia da sitcom degli anni Ottanta».
Come se essere semplicemente tedeschi significasse portare «per tutta l’eternità la colpa per una guerra dichiarata dal Terzo Reich, per un fallo di Harald Schumacher su Patrick Battiston, per Andreas Möller che balla in modo sexy a Wembley. Tuchel canterà God Save the King? Canterà Ten German bombers? E se non lo farà, quanto dovremmo sentirci indignati per questo atto ulteriore di tradimento culturale? La versione breve di questa risposta è: non importa. La versione lunga è: davvero, davvero non importa».
Un esperto di tattica
Cresciuto nella piccola città bavarese di Krumbach, Tuchel – faccia vintage, occhi di ghiaccio – era stato il miglior calciatore della sua classe e aveva aiutato la sua squadra a vincere il campionato scolastico tedesco a Berlino nel 1987. Era stato un protagonista del Krumbach e sembrava essere sulla strada giusta quando si unì all’Augsburg un anno dopo. Difensore lento ma intelligente, Tuchel passò all’Ulm (era il ’94) e fu lì che avvenne l’incontro con il suo maestro, il padre del calcio tedesco moderno. Il Guardian ha scritto che Rangnick ha aperto gli occhi a Tuchel sul gioco posizionale.
Tuttavia, quando l’Ulm fu promosso in Bundesliga 2 nel 1998, la gioia di Tuchel fu limitata da un infortunio cronico al ginocchio che lo costrinse a ritirarsi all’età di 25 anni. Ci sono attimi fatali, momenti che cambiano la storia. Se Tuchel avesse continuato a giocare forse oggi sarebbe un uomo diverso. Si prese una laurea in economia aziendale e soprattutto si mise a studiare la tattica.
Andreas Rettig, direttore sportivo dell’Augsburg quando Tuchel era diventò allenatore dell’Under 19 nel 2005, ha parlato di un individuo esigente e «convinto al cento per cento» delle sue idee. «Pensa al calcio 24 ore su 24» ha detto Heidel, ex ds del Mainz. «Ogni allenamento deve essere perfetto. Gioca la partita nella sua testa in anticipo. Ha bisogno che tutto vada secondo i piani, soprattutto la disciplina tattica: dove stanno i giocatori, dove devono andare. Questo rende molto difficile giocare contro le squadre allenate da Thomas».
Più tardi, quando Tuchel è andato in Inghilterra, era già quel signore ossessionato dai dettagli che aveva portato il Psg alla finale di Champions e che un anno dopo avrebbe vinto il trofeo con il Chelsea contro il City di un altro non inglese ammantato di tedesco: Guardiola. Alla fine il Guardian ha tirato le somme, le uniche che contano nello sport: «Tuchel è abbastanza bravo per questo lavoro? La narrazione degli ultimi anni è stata che l’Inghilterra avesse realmente bisogno di un vincitore. Bene, ora ne abbiamo uno».
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