I romanzi della trilogia autobiografica di Deborah Levy sono uno scarto alla literary non fiction. Il tentativo di inventare una nuova convenzione letteraria per pensarsi come soggetto femminile nel mondo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Deborah Levy (1959) è tra le maggiori scrittrici inglesi. Nata in Sudafrica, è autrice di romanzi come A nuoto verso casa (Garzanti), finalista al Man Booker Prize, e Come l’acqua che spezza la polvere (Garzanti). NNE ha pubblicato L'uomo che aveva visto tutto.
Ora da NN editore sono usciti i tre volumi della sua autobiografia in movimento Cose che non voglio sapere, Il costo della vita, Bene immobile, raccontando i suoi 40 anni, i 50, i 60.
Cose che non voglio sapere
di Olga Campofreda
La prima volta che ho avuto un attacco di panico mi trovavo nella metropolitana di Roma, alla stazione Termini. Cominciai a piangere disperatamente sulla banchina senza comprenderne il motivo, mentre i treni si susseguivano veloci al mio fianco e io me ne restavo immobile, incapace di andare né avanti né indietro.
Qualche mese dopo, lungo una strada d’inverno, mi capitò ancora.
Riconobbi la stessa routine montare dal basso all’alto attraverso il mio corpo: l’immobilità delle gambe che rifiutano di procedere, il pianto come magma che passa attraverso la gola, soffoca ogni grido di aiuto e poi esplode dagli occhi. Una volta a casa, ricordo di essermi precipitata ad aprire una vecchia edizione di Moby Dick. Mentre ero ferma a congelarmi in strada, mi erano tornate in mente le parole di Ismaele: «Ogni volta che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo… allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto».
Così decisi di ascoltarlo. Partii.
A distanza di tempo, nonostante tutto, in una stazione ancora più lontana da casa, quel senso abbacinante di un’apocalisse interiore riuscì a trovarmi di nuovo. Avevo imparato – parlandone in giro – che quando succede si deve pensare a un posto sicuro. Qual era il mio? E, soprattutto, come mai lo avevo lasciato? Perché smettessi di avere paura, Melville mi aveva detto di cercare l’avventura, ma quello che piuttosto mi sarebbe servito era una risposta sincera a queste domande.
Quando anni fa in una libreria di Londra mi sono trovata fra le mani Cose che non voglio sapere di Deborah Levy, non ho potuto fare a meno di pensare a quel periodo ostile che avevo attraversato, mentre con potenza l’immagine d’apertura del romanzo mi costringeva ad allontanarmi da me, per entrare dentro l’esperienza di un’altra.
«Quella primavera quando la vita era complicata e lottavo con il mio destino e semplicemente non riuscivo a vedere dove si potesse andare, mi resi conto che piangevo soprattutto sulle scale mobili delle stazioni. Non succedeva niente mentre scendevo, ma c’era qualcosa nello stare immobili ed essere trasportati verso l’alto che mi turbava».
La scala mobile, nella sua salita ineluttabile a discapito dell’immobilità del corpo che trasporta, invita l’autrice a leggere sé stessa, a guardarsi dentro piuttosto che continuare a guardare altrove, fuori di sé. E allora basta una domanda rivolta da uno sconosciuto, una curiosità innocente che appartiene alla coreografia delle formalità tra chi si incontra per la prima volta – Di dove sei? Da dove vieni? – per cominciare un viaggio interiore dentro la vita di una donna adulta che non aveva mai osato conoscersi davvero, non così a fondo.
Voce di scrittrice, voce femminile singolare che dice io ma che si fa plurale, voce di chi ha pensato erroneamente – come pure abbiamo fatto in molte – che tante risposte potessero nascondersi fuori di noi, nello spazio dell’avventura, prendendo il mare, ma che poi ha cambiato rotta in direzione opposta.
La storia degli uomini se ne sta scritta ovunque, e ovunque nei secoli è stata esposta per essere celebrata; bisognava piuttosto partire da sé. Così, col primo volume della sua Autobiografia in movimento, Levy aggiunge un tassello importante a quella letteratura che con Virginia Woolf e Simone De Beauvoir ha cominciato a scardinare l’egemonia dello sguardo patriarcale sulle identità, in particolare su quella delle donne.
Come per Annie Ernaux e Sarah Manguso, anche per Levy la scrittura è uno strumento fondamentale di ricerca e ricognizione, che qualche volta si appoggia alla rilettura di vecchi diari e aiuta la rielaborazione di esperienze passate, come quella della maternità, un argomento su cui la scrittrice affonda con decisione, regalandoci riflessioni spietate e indelebili. «Sembravamo le ombre di noi stesse, inseguite dalla donna che eravamo prima di riprodurci», leggiamo nella prima parte del romanzo.
«Non avevamo semplicemente acquisito dei figli, ma ci eravamo trasformate in persone che non capivamo del tutto». Ecco allora che la Madre, l’idea della madre, si rivela in queste pagine in tutta la sua artificiosità, in quanto concetto ideato dalla coscienza maschile. Chi sono quelle donne sotto gli strati di tutti i costrutti sociali che indossano?
Cose che non voglio sapere non è semplicemente un’autobiografia, ma una parabola necessaria, una discesa agli inferi in un passato doloroso e buio – l’infanzia nel Sudafrica dell’apartheid, il rapimento del padre, l’adolescenza in esilio in Inghilterra – che la scrittrice affronta facendo luce per liberare una volta per tutte la donna che è da quella che ha sempre sentito di dover essere.
«Eravamo in fuga dalle bugie che si annidavano nel linguaggio della politica, dai miti sul nostro carattere e sul nostro scopo nella vita»: nell’avventura che Levy percorre a ritroso alla ricerca dell’autenticità e del desiderio, diventa sempre più chiaro quanto il suo posto sicuro sia la scrittura intesa come luogo dove abita la voce. E chiunque legga questa storia non potrà fare a meno di interrogarsi sulla propria.
Il costo della vita
di Veronica Raimo
E comunque come diceva Duras, siamo sempre più irreali a noi stessi di quanti lo siano gli altri». Dice molte altre cose Duras in questo libro, Il costo della vita, dove Deborah Levy è in costante dialogo con presenze letterarie e incontri casuali, grilli parlanti e frasi origliate in un bar.
È strano come in tutti i discorsi critici intorno alla produzione di memoir non si parli mai in questi termini: scrivere di sé non soltanto è scrivere di qualcuno che non si conosce, ma di qualcuno che diviene sempre più sfuggente man mano che si va avanti nel processo di scrittura. L’irrealtà è la consistenza stessa dei ricordi, della percezione che abbiamo di noi stessi, tanto che i sogni a confronto appaiono degli affreschi molto più decifrabili. Scrivere di sé è anche sempre una forma di performance: mettersi in posa, interpretare un personaggio.
L’indagine più interessante – per come la vedo io – non è cercare di capire la distanza tra l’attore e il personaggio, ma tra l’attore e sé stesso. Quando l’attore è alle prese con un ruolo, ma non sta recitando: chi è? Di cosa è fatto quel disorientamento e come si può rappresentare? Deborah Levy cerca di avventurarsi in quel territorio, vestendo al tempo stesso i panni di un’investigatrice svagata (o distratta da mille indizi marginali) e quelli di una testimone del tutto inaffidabile.
Ci sono due questioni fondamentali nella sua indagine che chiaramente – e per fortuna – non la porteranno a risolvere nessun mistero (come si risolve un problema di irrealtà se non accettando l’irrealtà e quindi il mistero?) e sono le uniche questioni davvero rilevanti nella scrittura di sé: la prima persona e la gestione del passato rispetto al presente.
L’io non è mai dato, l’io – al pari del mistero che si cerca di indagare – si manifesta a determinate condizioni. Queste condizioni – ci dice Levy – sono condizioni materiali. L’io ha un costo.
In questo libro l’io arriva quando Levy è finalmente riuscita a rimediare la famigerata stanza tutta per sé, un capanno per gli attrezzi nel giardino di un’amica («Era stato lì che avevo cominciato a scrivere in prima persona, usando un io che mi era vicino ma che non ero io»). Levy si è appena separata dal marito (un marito che resta senza nome, confinato nel suo ruolo sociale o rievocato con sentimentalismo beffardo: «L’uomo che avrei sposato») e si è trasferita con le figlie in un appartamento al sesto piano di un condominio malconcio. È un appartamento che ha l’atmosfera di una casa per fuorisede, con tutti gli annessi pratici che questa atmosfera comporta, problemi idraulici tanto per cominciare, ma anche problemi di spazio creativo in cui sperimentare nottate a scrivere in stanza come gli studenti «ma senza birra, spinelli e patatine». L’offerta di un capanno da parte di un’amica sembra allora un buon compromesso, un altrove accessibile.
Il vecchio adagio conradiano dell’uomo che non sa come spiegare alla moglie che sta lavorando quando guarda fuori dalla finestra ha prodotto due fastidiose conseguenze nell’immaginario che circonda gli scrittori, l’innato mansplaining che si porta dietro (benché oggi la condiscendenza possa anche essere declinata a prescindere dal genere: come fare a spiegare a mio marito/compagno/coinquilino eccetera…) e l’idea che gli scrittori siano creature separate dalla vita materiale. Se scrivere è vista come un’attività contemplativa, il mondo in sé perde interesse se non come oggetto di contemplazione. Per Levy «la vita da scrittore è soprattutto una questione di resistenza». Non si genera resistenza all’interno della contemplazione.
Il capanno degli attrezzi è il luogo dove Levy si sente autorizzata a scrivere, però è un posto freddo, ingombro di cose altrui, scomodo, il rovesciamento di un ideale romantico alla Lord Byron dove comporre «poesie in giacca da smoking di velluto» mentre la legna profumata scoppietta nel camino. «Fissare le fiamme non aiuta certo a riempire le pagine» le dice la sua amica Celia che ha le ha prestato il capanno. E ha ragione.
So che in molti non sarebbero d’accordo, ma personalmente non ho mai capito perché le residenze per scrittori siano relegate in posti remoti e solitari, tra la natura e l’eventuale crepitio di un camino, o perché la stanza tutta per sé – in tempi il cui l’autonomia economica auspicata da Woolf si è trasformata in smania di ricchezza – debba assomigliare più a un albergo di lusso o a una villa al mare (preferibilmente fuori stagione) che al tavolino di un bar.
L’io che arriva dentro al capanno è un io formato attraverso la storia di luoghi da riscaldare e di tutto l’ingegno che ci vuole per farlo. Non si tratta di pauperismo – Levy è alle prese con una situazione economica più complicata di prima, ma è anche una scrittrice già affermata e una donna «libera di pagare le spese altissime di un appartamento che offriva ben pochi vantaggi» – bensì di tecnica applicata. Ci sono di mezzo molte stufe in questa storia («le brutte stufe a gas» usate per riscaldare le sale prove ai tempi in cui Levy scriveva opere teatrali, gli espedienti degli attori per resistere all’asfissia) e molta poca contemplazione. Ad esempio, non ci sono meli da osservare, ma il rumore di una mela che cade sul tetto. La gravità fuori e dentro metafora.
Naturalmente non ci sono solo le stufe: Il costo della vita è un libro pieno di oggetti. Gli oggetti non sono comparse, sono protagonisti, sono altre forme in cui si manifesta l’io. Gli oggetti (una bicicletta elettrica, una giacca blu da postino francese, le babbucce da sciamana, un orologio che ha ticchettato nella cucina di famiglia e che ora è chiuso a faccia in giù in uno scatolone, una collanina di perle, un rossetto, una torcia, cinque mandarini, il capanno stesso che rimanda a quello dove Heidegger ha scritto Essere e tempo, che a sua volta rimanda a Duras e a un’opera teatrale giovanile di Levy) sono gli agenti attivi della scrittura, creano le connessioni tra i ricordi, una filiazione costante in cui il passato si riversa nel presente, lo penetra, fino a produrre un’osmosi.
È questa l’altra questione: come si fa parlare del passato senza ricorrere ai flashback? Levy oppone questa obiezione durante una riunione per adattare cinematograficamente il suo romanzo A nuoto verso casa. Si offre di scrivere la sceneggiatura e azzarda: «Non c’è bisogno di farlo con i flashback».
È una tecnica che sta sperimentando con i suoi libri, dice, e come qualsiasi forma di ingegno – mi viene da aggiungere – è la resistenza stessa di cui parlava. Riscaldare un capanno, sviluppare doti da idraulica per affrontare un appartamento londinese dalle tubature capricciose, capire come evitare l’uso dei flashback in un film, interrogarsi costantemente sul mezzo che si sta utilizzando è il nucleo materiale – e per questo più sincero – della scrittura. Scrivere di sé ci porta a essere irreali, ma questa irrealtà è paradossalmente concreta, è il costo della vita. È il libro che avete tra le mani.
Bene immobile
di Claudia Durastanti
È passato qualche anno dalla pubblicazione di Bene immobile, l’ultimo volume dell’Autobiografia in movimento di Deborah Levy. Quando la trilogia giunse a una fase di completamento nel 2021 – per quanto possa dirsi completo un progetto letterario basato su una vita franta, dinamica, nuova –, il contributo di Levy alla literary non fiction aveva sancito uno scarto, una rottura. Il tentativo di inventare una nuova convenzione letteraria per pensarsi come soggetto femminile nel mondo. La sua immensa popolarità, anche in traduzione, è nata proprio dalla percezione che in questa scrittura ci fosse la volontà di fare una differenza. Molte autrici potevano dedicare libri agli stessi temi affrontati in Cose che non voglio sapere, Il costo della vita e Bene immobile, eppure solo una l’ha fatto con questo grado di disinvoltura poetica.
Confesso di aver mutuato questa espressione da un vecchio commento sulla rivista musicale Pitchfork per l’anniversario di Turn on the Bright Lights degli Interpol, uno dei simboli del revival post-punk nei primi anni Duemila. L’espressione testuale era: «C’erano tante band di ottimo livello a New York City nel 2002. Ma solo una ha fatto questo disco». Ogni volta che penso alla trilogia di Levy, il suono di questa frase mi riecheggia in testa, e mi conforta la sua assertività.
È infatti innegabile che ci siano molte autrici di literary non fiction di ottimo livello nel periodo che stiamo attraversando; le incontriamo tutti i giorni sugli scaffali delle librerie per obbligo o per scelta, perché è diventato impossibile evitarle o perché ormai riusciamo a leggere storie di donne soprattutto attraverso il prisma dell’io, ma appunto: solo una di loro ha scritto un’opera che si è fatta sia rottura sia classico insieme. Una sintesi che è diventata sempre più chiara a mano a mano che il progetto di Levy si consolidava nel tempo, assecondando il suo mistero quasi buffo, casuale.
È una sintesi così peculiare che va difesa e celebrata, in modo che una scrittura possa essere riconosciuta nella sua autonomia malgrado il perenne gioco di somiglianze in cui ci rifugiamo per sentire che esiste veramente uno spirito del tempo, una moda, e uno schema. Ma ogni grande opera è sia dentro sia fuori un orizzonte che sappiamo chiamare per nome.
Mentre mi accingo a scrivere questa prefazione, la frattura imposta da Deborah Levy con la grazia della sua scrittura è diventata effettivamente un classico. Una cicatrice sul fondale dell’oceano, una crepa terrestre sotto le acque in cui Deborah Levy ama tanto nuotare, e che si rinnovano di costante.
Ma se una lettrice attenta dovesse risalire al suo primo incontro con la trilogia, sarebbe costretta ad ammettere che l’Autobiografia in movimento si è imposta così già dall’inizio, proprio in virtù della sua originalità, legata a un uso sapiente delle fonti, ossia le infinite citazioni delle scrittrici e degli scrittori che prima di Levy si sono occupati del costo della vita e della poetica dello spazio, soprattutto quando la vita, così come la conosciamo, ci appare impossibile e ormai infrequentabile. Quando qualcosa ci viene a mancare in seguito a una separazione o a una mutazione sentimentale profonda e la soluzione per orientarsi è un lungo controcanto mnemonico in cui le pagine dei romanzi e dei saggi che abbiamo letto, tutti i materiali in cui ci siamo avvolti per crearci una membrana letteraria, risplendono di una luce nuova, oceanica e terrestre insieme, quasi sopravvivente ma senza il trauma affannato della sopravvivenza.
C’è molta teoria dietro il modo in cui Levy scrive di donne. Lo ha dimostrato nei racconti, nei romanzi e in questi diari di bordo completamente stravolti, in cui il senso del viaggio e dell’appartenenza domestica si rimescolano nel giro di pochi paragrafi per produrre un’esperienza scoordinata ma vivissima del tempo di una donna. Però è una teoria leggera, spesso strumentale e divertita, e in questo è facilitata dalla lingua in cui scrive, che si fa meno accademica dell’italiano o del francese e dà spazio alle parole anche al di là delle loro numerose connotazioni ideologiche.
Si potrebbe dire che Deborah Levy appartiene alla stregua delle tessitrici, che producono più trama, più stoffa: usa la banalità a suo vantaggio, sfrutta la crudezza del quotidiano e si approfitta anche dei riferimenti artistici condivisi, per rimescolare questi frammenti aggiungendo un’idea in più, una sfumatura stilistica in più. Non restaura l’esperienza dell’écriture féminine attraverso un lessico più agile e interpretabile da generazioni diverse dalla sua – è importante sottolineare che la trilogia è amatissima da persone che non hanno un’esperienza sovrapponibile a quella dell’autrice, e che nulla sanno ancora o vogliono sapere di maternità, di divorzi o di meraviglia verso il giardinaggio –, né la modernizza a partire da assunti consolidati e immutabili, ma allunga dei fili, altri li recide, e in generale produce talmente tanta materia da far venire voglia di avvolgercisi dentro, nonostante la proprietà di sintesi e di taglio che le appartiene. La trilogia di Levy è una stoffa morbida che somiglia a qualcosa di consumato, proprio come sono consumati gli oggetti e le case descritti nella sua ricerca di un bene più o meno stabile, ma è anche nuovissima, e si manterrà miracolosamente così nel corso del tempo, nonostante le numerose imitazioni, nonostante i numerosi lavaggi.
Ripenseremo a questi anni e ci renderemo conto di aver vissuto in mezzo a scrittrici che sono riuscite davvero a inventare qualcosa in più per le donne in letteratura, senza ricondurle perpetuamente alla marea della loro ricca genealogia, scavalcando obblighi tematici e critici. C’è qualcosa di prezioso quando l’avanzamento di una possibilità letteraria nasce proprio dalla decisione di mettere un soggetto consumato al centro. Quando intravediamo un filo che fuoriesce dal margine, solo per insinuarsi provocatoriamente da un’altra parte.
Sono stati anni fortunati questi. Vivaci e sperimentali. Le pagine di Bene immobile lo scrivono e ce lo ricordano in continuazione.
© Riproduzione riservata