Esce il 27 novembre su Sky e su Now la serie Dostoevskij, presentata all’ultima Berlinale, esordio dei fratelli nel “racconto lungo”. Hanno girato in pellicola. «Siamo curiosi ma tranquilli, abbiamo fatto quello che volevamo senza compromessi. Qualcuno userà la parola “pretenzioso”. Ma se rispetti gli spettatori hai il dovere di essere ambizioso»
Per chi volesse approfondire, è già in libreria con La Nave di Teseo un voluminoso tomo dal titolo Indizi. Contiene la sceneggiatura, gli storyboard e le foto di scena della miniserie più dark mai prodotta in Italia, Dostoevskij, dei fratelli D’innocenzo, Fabio e Damiano. Presentata all’ultima Berlinale, è già di culto prima ancora di approdare sugli schermi di casa, il 27 novembre, su Sky e su Now. È un debutto nella serialità, il loro, che non fa sconti all’algoritmo. Ho visto Dostoevskij dieci mesi fa, ma sono ancora in trip per l’universo geografico e stilistico in cui si muove il poliziotto Vincenzo Vitello, uno strepitoso Filippo Timi.
Per i gemelli è «un uomo che ha perso tutto in una terra di uomini che hanno perso quasi tutto, e che ha scelto di perdere anche sé stesso, o forse no». Quella che segue non è un’intervista canonica. Abbiamo parlato di emozioni, quelle che due ragazzi trentaseienni orchestrano con un singolare miscuglio di sapienza e freschezza. Ma le emozioni non sono la materia di cui dovrebbe essere fatto il cinema?
Verrebbe voglia di organizzare tour guidati nelle location del vostro "film lungo”, nella bassa Tuscia e lungo il fiume Mignone, per ragionare sulla magia che converte gli angusti orizzonti italiani negli sterminati orizzonti del cinema americano. È come percorrere una nostra Road 66.
Fabio: Siamo partiti da una topografia puramente immaginaria in cui tutto doveva essere coerente, pur risultando da un puzzle di luoghi diversi. Era un mondo da costruire, omogeneo e sorprendente. Ci sono luoghi degradati che non hanno nome, case che forse non sono case, ma la gente ci abita. Non sono non-luoghi, perché li abbiamo visti e filmati, ma sfuggono agli sguardi distratti.
Damiano: Un grande architetto con cui collaboravamo da ragazzi una volta ci disse: «Le pareti sono sacre, non ci va messo sopra nulla». Noi vediamo i nostri orizzonti come pareti da non coprire. Hai ragione, in Italia manca l’orizzontalità, è un agglomerato di verticalità sovrapposte, affollate. Non c’è spazio per respirare. L’essenzialità grafica che cerchiamo è quella dei paesaggi che disegni da bambino. Ci piacciono i luoghi che ti fanno chiedere: «Chi ci è vissuto? Chi ci può vivere?». Sono spogli, come se il tempo si fosse fermato. Il tratto distintivo di un buon regista è la capacità di avere un punto di vista, di raccontarti un mondo attraverso un dettaglio. Quel certo paesaggio rarefatto che vedi in Dostoevskij probabilmente era un interstizio tra un c. di grattacielo inutile e un bungalow senza interesse. Noi abbiamo filmato quello che c’era in mezzo. Passiamo tanto tempo a cercare le location quanto a cercare gli attori. Nei nostri film anche il “dove” è un attore, un personaggio, un volto in movimento. Non può dire battute, ma si esprime e rende credibile, o no, quello che racconti.
In Dostoevskij in particolare il paesaggio è il livello di comunicazione primario, precede le emozioni umane.
Fabio: Sono sempre interconnessi. C’è un personaggio, quello di Vitello-Timi, che fin dalla prima scena svolge il suo sciatto rituale di suicidio, con esiti fallimentari. Il mondo intorno a lui si accartoccia e finisce per assomigliargli. È come un autunno perenne, con gli alberi spogli e le baracche poetiche e malinconiche, taciturno quanto è taciturno Vitello. Quello che chiamiamo “il contenitore” è narrazione a tutti gli effetti.
Valeva già anche per America Latina e Favolacce.
Damiano: Meno per La terra dell’abbastanza, il nostro primo lavoro. L’intuito c’era già, ma la nostra esperienza non era ancora maggiorenne. Dovevamo ancora capire come manipolare. Perché di manipolazione si tratta, ma buona, preziosa. Non devi fregare lo spettatore ma viceversa aiutarlo a capire e godere meglio quello che racconti. Il nostro primo amore resta sempre il disegno. Negli storyboard cristallizziamo desideri e intenzioni. Quando un luogo esiste sulla pagina, si tratta solo di trovarlo nella realtà.
Alla prima esperienza di serialità, che reazione vi aspettate dal pubblico delle piattaforme, assuefatto a crime story molto più convenzionali e decisamente meno autoriali?
Fabio: Siamo curiosi ma tranquilli, perché abbiamo fatto quello che volevamo senza scendere a compromessi. Sono certo che qualcuno userà la parola “pretenzioso”. Ma se rispetti gli spettatori hai il dovere di essere ambizioso. Tra le caratteristiche di Dostoevskij c’è quella di essere stato girato in pellicola. I colori risultano quasi sensuali, senti la materia e l’atmosfera, la gravitas della storia. Ma non è quello che siamo abituati a vedere in tv. E non è l’appiattimento verso il basso che pretendono di norma le piattaforme. Io la guardo la tv: Sky è un’eccezione.
Damiano: È il vero problema della serialità corrente. Ti confronti con industriali che ai registi chiedono semplicemente di “evadere” un lavoro. È questo a privare il pubblico di prodotti di qualità che potrebbero essere la norma. Devi ottenere la libertà di raccontare in maniera adulta e di fare cinema con tempi molto più lunghi.
Non posso citare i titoli perché mi avete vincolato al silenzio, ma avete appena ultimato due sceneggiature basate su altrettanti capolavori letterari, che gireranno altri registi. Trasporre la grande letteratura è una sfida più stimolante di quanto lo sia scrivere in proprio?
Fabio: Va da sé che ci sentiamo molto più liberi quando scriviamo in totale aderenza a noi stessi. Ma anche confrontarsi con un grande romanzo è un esercizio di libertà. Per rispettarlo devi poterlo tradire. Devi sostituire un linguaggio con un altro, sostituire una parola con un’azione che la esprima con uguale chiarezza. Il linguaggio del cinema, delle immagini, è più democratico. Tu, singolo, guardi un film e la storia che ti racconta hai il potere di immagazzinarla, digerirla e riproporla secondo il tuo sguardo. Non mi attirano i film che ti impongono una sola e unica lettura: quelli buoni esigono uno spettatore attivo. Noi abbiamo girato non uno ma cento Dostoevskij. È un film diverso a seconda della sensibilità di chi lo guarda. Per qualcuno sarà un crime, per altri una serie sul rapporto padre-figlia o sul rapporto epistolare estremo tra due solitari. Ma per ottenere questo tu, regista, non devi mai sostituirti allo spettatore.
Valorizzare il talento di Filippo Timi è un regalo al cinema e a noi spettatori. Cosa dite ai vostri attori sul set?
Damiano: Lo spiego con un esempio. Se durante una scena emotiva la lacrima che dovrebbe scendere non arriva, non ce ne importa un c. Conta quello che sta accadendo dentro la testa dell’attore. Sul set non diciamo mai «stop», diciamo «grazie». È giusto ringraziare gli attori per la sensibilità con cui stanno dentro un’emozione. E non gli chiediamo mai di “improvvisare”: è una viltà, un attore non è un juke box, che si accende e spegne a comando. Il percorso si fa insieme. Non sappiamo qual è la porta – diciamo sempre – cerchiamola insieme. Non conosco grandi film senza grandi performance di attori. C’è un equivoco nella mitizzazione della figura del regista, anche di quelli più illustri. Un buon film è la somma di una buona sceneggiatura e di bravi attori. Il resto viene dopo. Ma molto dopo.
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