Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
In questo estratto Berselli esprime un forte disagio verso il conformismo culturale italiano, criticando l'assenza di vero dibattito e l'adorazione acritica di figure artistiche e intellettuali. Riflette sulla propria evoluzione, dal fervore ideologico giovanile alla scoperta di una cultura più elitaria e inattuale, segnata dall’influenza di editori come Adelphi. Infine, analizza come certi libri e autori siano stati imposti come dogmi culturali, rendendo il non capire un marchio d'inferiorità intellettuale
Ce n’è per tutti in questo bellissimo libro di Edmondo Berselli. Le tre categorie che Berselli riprende da Arbasino e applica su larga scala sono: le giovani promesse che però restano sempre tali; il solito stronzo, ed è la maggior parte; il venerato maestro, raro, ma sempre però prossimo a diventare il celebrato cazzone.
La sua vena è quella del grande scrittore satirico.
È anche la storia del conformismo che ti chiama all’appello e a cui si risponde per non fare brutta figura, su film, romanzi, rinomati scrittori, parvenze di filosofia cui abbiamo creduto di credere. Il libro è del 2006, ma col passare del tempo si dimostra sempre più convincente, pieno di verità e comico in abbondanza.
Atto meritorio dunque quello delle edizioni Quodlibet di ripubblicare Venerati maestri di Edmondo Berselli, uno dei libri più divertenti, e intelligenti, degli anni Duemila. Uscì nel 2006 per Mondadori, fui l’editor di quel saggio formidabile che fondava e codificava il cabaret culturale come genere, e mi piace ricordare che Guia Soncini ha detto o scritto che il suo incipit è il migliore della letteratura italiana del nuovo millennio. Sono d’accordo. Eccolo.
Beppe Cottafavi
Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia. Non mi piacciono gli indiscutibili. Non mi piace ’o presepio. Non mi piace Roberto Benigni. Non mi piace Susanna Tamaro.
Ad aggravare questa malattia dello spirito, devo dire che mi piace sempre meno anche Nanni Moretti, e all’occorrenza saprei spiegare perché Il caimano è un film sbagliato. Non mi piace Tornatore, non mi piace Salvatores. Avrei molti dubbi anche su Dario Fo, e per equilibrio bipartisan ammetterò in via preventiva che ero e sono scettico pure su Oriana Fallaci. E su queste idee mi sembra di raccogliere il consenso dei miei maliziosi amici, che fanno ampi cenni di approvazione e confermano che è tutto vero, e si divertono un mondo a sentire le mie cattiverie, e aggiungono le loro con la soddisfazione sfacciata con cui si tirano le briscole alte nell’ultima mano. Poi guardo i giornali, leggo le recensioni, assisto alle comparsate televisive quando viene lanciato un film o un romanzo, e mi dico: c’è qualcosa che non va.
Il qualcosa che non va è il conformismo diffuso, l’ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra avere coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare l’Italia contemporanea, in ragione del quale tutti sono d’accordo con tutti, e nessuno obietta mai niente. È il regime ferreo degli infallibili, che inibisce qualsiasi critica. In privato si parla male di tutti, e si fanno sghignazzate sui grandi capolavori che vengono proposti dai mass media e sui protagonisti santificati dallo stereotipo; in pubblico, e cioè sui mass media e nelle occasioni ufficiali, ci si guarda bene dall’incrinare anche solo con un graffio il luogo comune e l’oleografia. Prima di proseguire il discorso, credo che sia necessario da parte mia un atto di sincerità.
Io non ho idee, non ho convinzioni, principi, «valori», ho solo dei modi di dire le cose, e se vogliamo proprio confessarlo, sono sinceramente relativista. Arriccio il naso quando qualcuno usa la parola «identità».
La lettera di un pentito
Fu quello che si dice uno shock cognitivo. Avevo alle spalle anni di ciclostile, di riunioni fumose in sezioni con i muri scrostati, di manifestazioni della Cgil con grandi tambureggiamenti sui bidoni, di drammatici scoperti nel pagamento rateale dell’Enciclopedia Einaudi, di pensieri reverenti rivolti a Norberto Bobbio anche se tutti sapevamo benissimo che Bobbio era la foglia di fico democratica sulla spinta rivoluzionaria. E a un tratto ecco la rivoluzione, non il movimento, bensì il sommovimento: la pelle, l’emozione, il senso di responsabilità che chiama, il desiderio che non vuole rispondere. Mi sono detto, come in altre occasioni di spaventosa incertezza, quando ti ritrovi nel giardino dei sentieri che si biforcano: che fare?
Sono andato in una libreria di sinistra, ho vagato fra banchi e scaffali mentre l’alta figura di Romano Montroni mi controllava occhiutamente perché erano tramontati i tempi in cui nelle librerie progressiste ti sorridevano se fottevi un libro. Mi sembrava che a un tratto tutti i libri, i saggi, le analisi, i progetti politici fossero precipitati nell’insignificanza: e alla fine, chissà perché, forse perché mi seccava passare davanti alla cassa senza avere acquistato niente, ho comprato Siddharta. La traduzione era di Massimo Mila, un compagno di quelli coltissimi, rigorosissimi, puntuti. Questo Siddharta quindi doveva essere ’na forza. Recita infatti il catalogo Adelphi, descrivendo con brevi infallibili tratti il contenuto: «la via di purificazione percorsa, in un’India senza tempo, da Siddharta, il figlio di un bramino, che dopo avere assaporato la ricchezza, la voluttà e la potenza, scopre nel Budda l’ultima verità da superare».
Adesso è facile per voi emettere i vostri verdetti dettati dal senno di poi e stabilire che si trattava solo di un risarcimento estetico o estetizzante allo smarrimento culturale e alla perdita dei valori, tanto che viene voglia di rivalutarlo. Adesso lo dicono tutti, che Siddharta è una cretinata. Ma in quel momento immenso, arrestatosi il tempo nella mia stanza, mentre la sera leggevo e rileggevo quelle pagine traslucide d’incanto e di sapienza, pensavo che il mio destino si era finalmente compiuto. C’era davvero tutto, lì dentro: l’assenza o l’esitazione del tempo, l’India misteriosa, la voluttà, le verità insuperate e insuperabili, l’inattuale.
Rimasto senza fiato, mentre la vita si trasformava in un lunghissimo immobile istante, ho capito che potevo lasciare scadere senza rimorsi le intimazioni einaudiane di pagamento. Certo che le domande venivano giù come una grandinata, a cominciare da quella per me più inquietante: ma, dopo tutto, dopo Siddharta, il sublime è di destra o di sinistra? E le «immense epopee» indiane? E le «antiche saghe nordiche»? E la rinuncia, e l’ascesi, e l’esperienza sovrumana dei mistici? Meglio andarci piano, su queste tematiche la fretta è una cattiva consigliera: per creare l’atmosfera opportuna ho acceso una modica quantità di vari incensi e ho avviato la meditazione. Quella domanda su destra e sinistra sembrava fatta apposta per ridurre la complessità di un’intera esperienza culturale, filosofica, letteraria, scientifica alla grossolanità di uno schema condizionato dalle inezie della cronaca: come a voler trasportare l’infinita profondità dello spirito nel chiacchiericcio superficiale del quotidiano. Destra, sinistra. Una volgarità. Mentre io, cioè noi, eravamo già proiettati verso l’assoluto, verso l’ultravioletto. Non serviva quindi a niente chiedersi in quale posizione politica si colloca tutta una letteratura, di più, una visione del mondo che ambisce a essere eterna, o come minimo atemporale, situata oltre ciò che è misurabile. Per gli spiriti davvero superiori, la politica è una scocciatura transeunte anche se perdurante. Tanto che una volta Calasso dichiarò che la casa editrice Einaudi aveva fallito il suo compito perché aveva ceduto alla pedagogia politica, pretendendo di proporsi come coscienza nazionale; e io a quel tempo mi ero scandalizzato, perché la leggerezza di Calasso, la sua intelligenza volatile, il suo politeismo febbrile, mi erano sembrati una vacuità, lo strumento effimero di un flirt con il mito. Si comincia così, con gli onanismi mitologici, e poi ci si fa le canne, che in età adulta sono un problema, perché i pusher maghrebini prima ammiccano e poi ti sfottono. Naturalmente l’opus magnum di Nietzsche, curato da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, non l’ho letto mai, perché per leggere Nietzsche bisogna avere meno di diciott’anni, come cantano i Pooh.
Diciassette anni, Nietzsche, gli dèi, Atene, e il sogno apollineo di un amore consumato sulla riva erbosa dell’Aniene. Così come per leggere Also sprach Zarathustra, e solo in tedesco, bisogna essere austeri professori universitari, e scrutare in modo maniacale il testo per decifrarne ogni implicazione, «ogni riverbero», ed essere vivamente interessati alla nascita della tragedia, ad alcuni abissi dionisiaci, e all’«origine, accecante e oscura, della sapienza greca». Gli ultimi marxisti rimasti in circolazione cercavano di praticare l’estrema resistenza intellettuale, una specie di ridotto culturale in Valtellina, altro che Grecia, sostenendo con cupo malanimo che quelle fanfaluche su Dioniso, «dio che muore», e Apollo, «luce terribile e devastante», erano buone tutt’al più per stagionate professoresse di liceo, che dietro l’immagine di un sole giallo e nero evocata dal pensiero apollineo sognavano di farsi ingroppare in modo fin troppo ctonio da aitanti apolli, non importa se semidei o umani troppo umani, laggiù, in un’isola greca, ascoltando Lucio Battisti da un mangiadischi gracchiante nella sabbia. O mare nero, mare nero, mare ne… Ma io ormai non ero più marxista, e mi ero infine convinto che la realtà può essere osservata, o percepita, oppure, meglio, contemplata, solo attraverso un raggio che sfiora l’orlo delle cose e fa trascolorare la storia in una vertigine, in uno stupore, o riducendola in «perfetti cristalli» rintracciabili qua e là nella smisurata prepotenza del testo.
Non è che all’esordio ci capissi poi molto. Ma imparai un sacco di parole spiazzanti: come «inattuale», che probabilmente proveniva dal repertorio dell’ispiratore eccentrico e semisegreto della casa editrice, il triestino Bobi Bazlen, con le sue inclinazioni verso letterature, umanesimi e antiumanesimi di confine, e di crinale, e di soglia, e di faglia, e di limite. Uno gnomo inquieto, che non ha lasciato scritto quasi nulla: solo «le tracce di un uomo che, come i maestri taoisti, amava lasciarne il minimo possibile». Oppure altre densissime parole come «gnosi», che alludeva a una conoscenza o sapienza «altra», parallela al mondo e alla filosofia. Fate la prova anche voi, intervenite in una discussione serale dicendo con espressione compunta: «A me sembra che in tutta l’opera di Umberto Eco, nella Rosa ma soprattutto nel Pendolo, ci sia un vizio gnostico», e vedrete che tutti annuiranno pensosamente, eh sì.
Hanno raccontato spesso che il ventenne Calasso incontrò una volta il maturo Theodor Wiesengrund Adorno, il quale rimase molto impressionato dalla cultura sterminata del giovane interlocutore, tanto da confessare in seguito agli amici: «Kvel Kalasso ha letto tutti i miei libri, compresi kvelli che non ho scritto ». Potrebbe essere un buon esempio della dialettica negativa del maestro francofortese, uno che, esule in America, fece un’indagine sociologica sulla personalità autoritaria senza mai parlare con nessuno e senza andare mai in società («Tutto in mio Kulo» rispose con nitido accento tedesco alla domanda del coordinatore della ricerca sulle fonti empiriche da cui aveva attinto). Certo è che se si prende l’insieme del catalogo Adelphi, un autentico e voluto «libro fatto di libri», è difficile sfuggire alla convinzione che Calasso e la sua compagine editoriale abbiano modellato, se non proprio la coscienza, senz’altro il gusto degli italiani desiderosi di cultura e specialmente di godimenti intellettuali. E questo successo è stato ottenuto grazie a un solo schema tattico, riassumibile nel seguente principio. Se non capite, è colpa vostra.
Quindi, date retta, conveniva almeno fingere di capire. Così Calasso ha dettato tendenze ed evocato suggestioni, visioni anamorfiche, fantasmi, golem, morti viventi, spettri, ectoplasmi. Ecco la Mitteleuropa così fané e di Arthur Schnitzler e Joseph Roth, e una fila di altri minori o minimi, ma tutti evocativi di un’era miracolosamente intatta prima della catastrofe, come l’ala di una farfalla morta da decenni che conservava un’ombra colorata di porpora, a non stropicciarla. Avevano un bel da protestare invidiosamente certi accademici di cattivo umore: «Ciarpame bellettristico! Belle Époque di cartapesta!». Ed era del tutto inutile anche ricordare che secondo Musil, nella Mitteleuropa storica «un genio poteva venire scambiato per un cretino, ma difficilmente un cretino per un genio», mentre la strategia adelphiana giostrava proprio in perfetto equilibrio sul filo che collega, all’insaputa gli uni degli altri, geni e cretini. Per qualche anno il popolo dei lettori ebbe l’ordine di assaporare squisitezze austriache o prussiane, antiche e moderne, comunque rigorosamente «inattuali», su fondali liberty o per meglio dire «Jugendstil», quinte di cartone, svenevolezze mélo, romanticismi che sfiorano l’inquietudine, cineserie che alludono all’orrore, tutto all’insegna di una brillantissima Sezession dal conformismo. E ci adeguammo, conformisticamente, eccome se ci adeguammo. Bisognava capirci: eravamo usciti dal canone politico ed eravamo entrati nel ciclo dell’intrattenimento, e dunque chi prometteva di intrattenerci meglio di Calasso?
Sarebbero arrivate anche le grandi narrazioni contemporanee di Milan Kundera, con le storie «di passioni invincibili quanto insopportabili, di eventi fatali quanto effimeri»; e vent’anni dopo Mordecai Richler con le sue scorrettezze politiche così sciolte, nella sua souplesse facinorosa. Pubblicati in ogni caso, questi romanzi, in un clima di allusività intellettuale così sagace e scaltra che spetta implicitamente al lettore accettare il dogma o il sofisma culturale suggerito, per non passare nel rango grigio degli esclusi, di quelli che non capiscono. Nessuno poteva permettersi il lusso di non capire, quando il vizioso cultore del trash Roberto D’Agostino, l’attuale deus ex machina di Dagospia, citava durante «Quelli della notte», di fronte allo sguardo complice di Renzo Arbore, i due tormentoni più dogmatici di metà anni Ottanta:
a) L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera
b) L’edonismo reaganiano
Il finale incompreso
Così come nell’avvio del secolo successivo – qui si ragiona per secoli e millenni, altroché – nessuno poteva negare la grandezza della Versione di Barney di Richler, pena la scomunica intellettuale di Giuliano Ferrara e dell’intera band del «Foglio», che su questo romanzo praticò uno dei casi di più riuscito terrorismo culturale del decennio. Figurarsi che cosa può rappresentare un romanzo, al giorno d’oggi: niente.
Si sa benissimo che nessuno dovrebbe cullare l’insensata distrazione di leggere romanzi (al massimo sono consentiti romanzacci da ombrellone, sesso, violenza, morti che parlano, killer spietati), perché come ha detto E.M. Cioran, un nichilista efferato coccolatissimo dagli adelphiani, che se ne stava in una soffitta di Parigi a fumare moltissime sigarette, non si vede come mai dovremmo leggere libri che parlano di cose non avvenute quando non abbiamo ancora letto i libri che parlano di realtà effettivamente accadute. Ma La versione di Barney era uno di quei romanzi socialmente obbligatori che permettono, se per caso incontrate Ferrara, di scambiarvi strizzatine d’occhio e gomitatine d’intesa, in un’atmosfera di amicizia virile e complice.
Io poi ero talmente intossicato da non sfuggire nemmeno alla convinzione che il gusto supremo di Calasso si esprimesse al naturale nella selezione capricciosa della narrativa, ma in modo perfino più insidioso nell’individuazione di modalità sociologiche e scientifiche «altre» se non addirittura «ulteriori». Ad esempio con il tentativo visionario, fallito solo per l’incorreggibile impermeabilità del mercato e per la mole scoraggiante del saggio, di designare l’Homo hierarchicus dell’antropologo Louis Dumont come un’opera-paradigma, un modello in grado di interpretare tanto la struttura di potere dell’India castale quanto l’organizzazione simbolica e funzionale delle società postindustriali: talché si potesse maturare l’idea insidiosa che le classi e la lotta di classe erano tutte bubbole materialiste e il progresso un sentiero illusorio dipinto sul fondale della storia a uso dei gonzi. Con il sottinteso forse, non proprio democratico e di certo non ugualitario, di una sicura immutabilità delle strutture sociali, garantita direttamente da qualche bramino.
Oppure con la presentazione dell’opera totale di Douglas R. Hofstadter (Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, vero che ve lo ricordate?) in modo da illustrare l’intelligenza artificiale come un divertissement dell’intelletto, alla stregua di una variazione «anamorfica» della scienza: un libro di delirante successo commerciale, che ancora si trova nelle biblioteche degli amici, e se lo si controlla di soppiatto si vede dall’ingiallimento che nessuno è mai andato oltre le prime trenta pagine. E ancora proponendo Il grande massacro dei gatti, il saggio di Robert Darnton su quel Settecento favoloso che precede la Rivoluzione francese, come una lettura di gusto, una storia fatta di stories. «Con questo libro variegato, Darnton ci dà l’esempio più efficace della sua maniera (se non vogliamo usare parole ingombranti come “metodo”)» annota infatti Calasso, lasciando intendere con un’occhiata allusiva che la storia è solo stile, e dunque fra stilisti ci si intende facile, come scambiarsi uno sguardo d’intesa con Armani o bere un bianchino con Missoni: lo stile è tutto.
È in queste sfasature intenzionali che si manifesta lo smisurato (o meglio incommensurabile?) talento adelphiano per la contaminazione: nella capacità di accostare per esempio al determinismo etologico di Konrad Lorenz gli slittamenti new age del Tao della fisica di Fritjof Capra, in cui uno scienziato atomico evidentemente provato dalle troppe equazioni tenta di dimostrare che la fisica subnucleare viene descritta meglio dalla filosofia indiana che dal pensiero cartesiano.
Nell’accostare allo storicismo liberale di Benedetto Croce la mitografia di Giorgio de Santillana o le configurazioni psichiche di James Hillman. Punteggiando il tutto con una quantità micidiale di libri di culto, dal Siddharta di Hermann Hesse ai Detti e contraddetti di Karl Kraus, da Cioran a Colette, da De Quincey fino all’ultimo dei grandi reazionari, un cattolico nichilista affiorato da una biografia misterica, il colombiano Nicolás Gómez Dávila, l’autore di In margine a un testo implicito, che piace molto a destra perché la sua albagia ispano-americana è una delizia apocalittica che rivaleggia con Karl Kraus, con l’affumicato Cioran, con i più pessimisti fra gli esteti e gli avversari della civiltà di massa, perché di massa saranno gli altri, noi siamo la casta.
Da diverso tempo non sono più adelphiano. Un giorno, svegliatomi la mattina di cattivo umore, mi sono chiesto se, insieme alle profondità insondate di Massimo Cacciari e alle vertiginose superficialità di Alberto Arbasino, e fissando per sempre in un canone letterario di purissime contraddizioni Nabokov e Sciascia, Bernhard e l’ultimo libro postumo di Márai, e mettendo sullo stesso piatto leggerissimi aromi cinesi e inassimilabili pesantezze indoeuropee, non passasse il criterio di un totale transfert all’impolitico come unica chance intellettuale per i contemporanei; e se la sola scintilla del sovrumano si possa rintracciare, per via ovviamente gnostica, nelle «gemme», nelle «schegge», per l’appunto nei «cristalli» che traspaiono così vividamente nei testi secondo i risvolti di copertina modellati dall’ispirazione luccicante di Calasso. E mi sono dato come risposta: vabbè, abbiamo capito. Questo processo di estetizzazione ha condizionato i buoni e volonterosi lettori inducendoli a pensare che le modalità contemporanee dell’agire politico vadano messe in catalogo unicamente sotto la sigla delle apocalissi filosofiche e letterarie. Con il risultato che è arrivata l’assuefazione.
Troppo sublime, troppa eleganza, troppo charme. Un invito continuo, oggi pomeriggio, domani, dopodomani, al pomeriggio della metafisica, con pizzichi di essenze finissime nei piattini, e bocconcini destrutturati come nella ultracucina dei nouveaux chefs, mentre la voce di Battiato ripete sullo sfondo «Vieni a prendere un tè, al Caffè de la Paix, su vieni con me»: ma quando si mangia? Diciamo, allora, in un accesso neomaterialista e di nuovo rivoltoso, che qualche generazione cresciuta con il Robert Pirsig di Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta come alternativa al manuale di filosofia se l’è voluta, di finire con l’idolatria filistea per Bruce Chatwin come guida o baedeker per le vacanze esotiche alle Seychelles.
Succede, talvolta, di infatuarsi della grande cultura per le ragioni sbagliate, scambiandola per fighettaggine. Ancora adesso durante qualche serata solitaria mi faccio tentare, metto su il Battiato di Prospettiva Nevskij, quella canzone che parla di suggestivi orinali sotto i letti e di un magico incontro con Igor Stravinskij, e leggo l’ultima scoperta adelphiana, un Niffoi, un Cameron. Ma le tinte pastello mi sembrano sempre più inattuali, confuse nell’opacità del contingente, private dell’eterno. Calasso e Jaeggy non stanno più insieme, sussurrano di sbieco i pettegoli, o forse sì, ma lui deve avere altre storie, altre vite. Battiato deve avere perso da un pezzo il centro di gravità permanente.
E io, che devo dirvi? Già, che devo dirvi? Quale altra confessione devo fare? Quale altra versione fornirvi? Eccola qui. Cari amici, ex compagni, nuovi destri, purtroppo non ho mai capito come va a finire La versione di Barney. L’ha ammazzato lui o non l’ha ammazzato lui, coso, insomma, quell’altro? È colpa delle letture frammentarie, si perde il filo. Uno di questi giorni chiamo Giuliano Ferrara, che lo sa di sicuro, e me lo faccio dire da lui.
Da Venerati maestri, Quodlibet, 2025
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