A 25 anni dall’ultima volta, nella Striscia è ricomparsa la poliomelite, per cui è stata disposta una campagna vaccinale che procede in una situazione densa di difficoltà e rischi. Un report dell’Unep, oltre alle distruzioni e alla presenza di detriti, certifica un gravissimo inquinamento di terreni e acque. Gli effetti sulla salute oggi visibili sono solo la punta dell’iceberg
Da un recente Rapporto dell’Agenzia per la protezione ambientale delle Nazioni unite (Unep) sulla situazione ambientale e i rischi per la salute nella Striscia di Gaza emergono informazioni raccapriccianti: da dati satellitari è stimato che le bombe abbiano distrutto il 37 per cento delle abitazioni e ne abbiano danneggiato gravemente il 27 per cento, producendo 39 milioni di tonnellate di detriti di varia natura, circa 107 kg per ogni metro quadro di territorio, con un gravissimo inquinamento di terreni e acque. I sistemi idrici, di trattamento dei rifiuti e igienico-sanitari vengono definiti distrutti o prevalentemente inattivi, con la conseguenza che si aggrava di giorno in giorno la situazione ambientale e crescono a dismisura i rischi per la salute, nell’immediato e sul medio e lungo tempo.
La lettura del rapporto “Impatti ambientali del conflitto in Gaza - Valutazione preliminare” lascia atterriti: se è possibile, la crudezza dei numeri stampati è anche più forte e tragica delle immagini passate giornalmente dai media. L’ambiente della Striscia di Gaza era già in condizioni difficili prima del 7 ottobre, con una forte pressione sugli ecosistemi a causa dell’alta densità di popolazione, di conflitti ricorrenti, delle condizioni di deprivazione socio-economica, in un’area vulnerabile ai cambiamenti climatici.
Le distruzioni recenti e in corso a opera delle forze armate israeliane hanno praticamente annullato tutti gli sforzi fatti per migliorare i sistemi di gestione ambientale, specie per dotare la popolazione di impianti di desalinizzazione dell’acqua, di trattamento delle acque reflue, di sviluppo di sistemi a energia solare e per il ripristino della zona umida costiera di Wadi Gaza.
Le macerie contengono materiali e sostanze pericolosi: ordigni inesplosi, rifiuti di ogni genere, amianto, polveri, che comportano rischi per la salute umana per esposizioni che più si protraggono nel tempo e più produrranno gravi danni all’ambiente e alla salute. Per questa ragione, è fondamentale abbreviare il tempo per la rimozione, il risanamento, la ricostruzione.
A seguito della chiusura dei cinque impianti di trattamento delle acque reflue, le acque non depurate, che contengono agenti patogeni e sostanze chimiche pericolose, inquinano i terreni, le acque dolci e costiere e le spiagge, dove cercano di sopravvivere oltre 2 milioni di palestinesi.
Acque e terreni sono contaminati anche dai metalli pesanti che sono nei pannelli solari distrutti, e dalle numerose sostanze chimiche contenute nelle munizioni esplose, da aggiungere ai rischi degli ordigni inesplosi, che sono particolarmente gravi per i bambini.
Il sistema di gestione dei rifiuti è collassato, 5 impianti di trattamento su 6 sono gravemente danneggiati: il rapporto Unep riporta che, già alla fine del 2023, 1.200 tonnellate al giorno di rifiuti si accumulavano intorno ai campi e ai rifugi.
Pur in assenza di dati di monitoraggio, l’aria è valutata gravemente inquinata dagli incendi e dalle combustioni a cielo aperto di legna, plastica e rifiuti.
In questo quadro aumentano a dismisura i rischi di ogni tipo di malattia, che siano acute, croniche, infettive, assai difficili da prevedere e su cui poco possono fare i presidi sanitari d’urgenza tenuti coraggiosamente in piedi dalle ong, mentre c’è bisogno di riorganizzare un sistema sanitario che sia in grado di affrontare gli impatti della guerra.
Naturalmente al primo posto ci sono i presidi per la cura e riabilitazione, ma sarà importante anche ricostruire la capacità di rilevamento di dati ambientali e sulla salute della popolazione, indispensabili per la comprensione della situazione e la programmazione di un sistema sanitario in grado di rispondere alle criticità principali postbelliche.
I rischi sono già realtà
Il poliovirus di tipo 2 rilevato a luglio in liquami provenienti dai siti di Khan Younis e Deir Al Balah e il primo caso confermato di poliomielite in un bambino di 10 mesi non vaccinato a Deir Al Balah sono eventi gravissimi, che non accadevano da 25 anni.
Il caso viene presentato in modo superficiale, alludendo al potere risolutivo di una campagna di vaccinazione affidata alla somministrazione per bocca del vaccino Sabin (OPV, basato su virus Polio vivi attenuati), da effettuarsi in una situazione densa di difficoltà, e non priva di rischi. Infatti, esiste una probabilità, seppure bassa, di effetti collaterali del vaccino OPV (in Italia è in uso un piano di 4 dosi di vaccino inattivato di tipo Salk) e tra i fattori di rischio riconosciuti per lo sviluppo di casi gravi di poliomielite ci sono lo stato di gravidanza, l’immunodeficienza, la presenza di ferite o lesioni, condizioni fin troppo frequenti in questo periodo.
La situazione richiede un intervento su larga scala per la vaccinazione urgente, ma ha bisogno di un piano più complesso che contempli richiami vaccinali e attenzione anche agli adulti, che possono infettarsi, sebbene con più bassa probabilità, per via oro-fecale o per contatto con ammalati o portatori sani.
In estrema sintesi, nessun ecosistema è risparmiato dalle conseguenze dirette e indirette della distruzione bellica, gli ambienti marini e costieri, i terreni coltivabili e l’aria. Oltre alle enormi perdite umane dirette, gli effetti sulla salute oggi visibili sono solo la punta dell’iceberg, e ciò che accadrà in seguito è solo approssimativamente stimabile, in assenza di un ritorno alla pace.
Il rapporto Unep conclude con l’appello «al cessate il fuoco per salvare vite umane e ripristinare l’ambiente, per consentire ai palestinesi di iniziare a riprendersi dal conflitto e ricostruire le loro vite e i loro mezzi di sussistenza a Gaza. Un’analisi ambientale, che comprenda la valutazione della contaminazione da munizioni e degli altri inquinamenti legati al conflitto, dovrebbe essere parte integrante della pianificazione della ripresa e della ricostruzione». Cambiano gli scenari di guerra, ma non cambia la sostanza e la smisurata ipocrisia di chi rifiuta la colpa o non si assume responsabilità.
Nel libro di Tiziano Terzani Lettere contro la guerra, di recente ristampa, è scritto: «Che differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le nostre bombe a Kabul? La verità è che quelli di New York sono i “nostri” bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri 100.000 bambini afghani che, secondo l’Unicef, moriranno quest’inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini “loro”. E quei bambini “loro” non ci interessano più».
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