Nel 2024 oltre 1000 esecuzioni in Iran e 34 donne uccise. La testimonianza di alcuni attivisti del Cnri: «Felici per la liberazione di Cecilia Sala, ma sono ancora troppe le vittime del regime»
Elaheh, Neda, Sahar. I giovani della diaspora iraniana stringono con forza le proprie radici fin dal nome che portano con fierezza, accomunati da una storia che li vuole figli e figlie di un paese a volte neppure mai visto di persona, ma conosciuto attraverso i racconti di chi, in Iran, ha vissuto l’incubo della repressione del regime attualmente guidato dall’ayatollah Ali Khamenei.
«Per chi è nato o cresciuto all’estero, impegnarsi per promuovere la transizione democratica dell’Iran è un modo per dare voce a chi non ce l’ha, in segno di solidarietà verso i nostri fratelli e le nostre sorelle che non possono esprimere il dissenso».
Il valore delle proprie origini
Asal Rezapour è nata in Lussemburgo e attualmente risiede a Parigi, dove frequenta l’università. Lei, come molti suoi coetanei, proviene da una famiglia vocata alla resistenza: «I miei genitori sono stati prigionieri politici prima di arrivare in Europa, mentre mio zio è stato assassinato dal regime».
Ascoltando i racconti di Asal e di tanti giovani della diaspora, si percepisce uno spirito di responsabilità davanti al peso della storia forte a tal punto da mettere in discussione perfino il senso stesso di appartenenza. «Difficile dire se mi sento più iraniana o europea: non posso dimenticare le mie origini e crescere in un paese libero mi dà ogni giorno l’occasione di essere parte del cambiamento per un futuro migliore».
Rezapour pronuncia questa parola con una leggera esitazione, ma quando prova a dare un senso concreto alla sua idea di futuro non ha dubbi: «Spero che l’Iran riesca a tornare al più presto un paese libero, con la religione separata dalla politica, senza discriminazioni di genere e soprattutto con la pena di morte abolita per sempre».
Giovani in lotta per la libertà
Obiettivi e valori che si sposano con la visione portata avanti dal Consiglio nazionale della resistenza iraniana, il principale movimento organizzato di resistenza al regime attivo fin dal 1981.
L’attivista italo-iraniana Ghazal Afshar spiega il motivo per cui questi ideali fanno breccia tra i più giovani: «La maggior parte degli attivisti sono iraniani di seconda generazione, i cui genitori hanno vissuto la rivoluzione durante il periodo dello Scià per poi fuggire all’estero. La resistenza ha pagato un prezzo altissimo, quasi centoventimila vittime, ecco perché la lotta alla libertà è un sentimento trasmesso in maniera così forte fin da piccoli».
Come sostiene Afshar, anche lei costretta a piangere la scomparsa di un familiare, nel massacro del 1988 costato la vita a oltre trentamila persone, «il desiderio di instaurare finalmente una democrazia dopo 150 anni di dittatura spiega questo attivismo forte e diffuso».
Chi si oppone al fondamentalismo del regime può contare su una fitta rete di associazioni che operano sulla scena internazionale, ma anche su un sistema di resistenza interno e non violento. «L’accesso a Internet, sia dentro che fuori dall’Iran, colma il divario di comunicazione che c’era tra le generazioni precedenti»: Ali Bagheri, ricercatore dell’Ifsa di Gent, in Belgio, spiega che «per i giovani iraniani è fondamentale poter contattare istantaneamente amici e familiari sui social media, così da ottenere informazioni di prima mano dall’interno e condividerle poi con l’opinione pubblica».
«Felici per Cecilia Sala»
Nell’ultimo periodo l’arresto della giornalista Cecilia Sala e il suo rilascio, dopo venti giorni di prigionia nel carcere di Evin, hanno riacceso i riflettori sull’emergenza umanitaria in Iran, dove il regime porta avanti quella che viene definita la «politica degli ostaggi», facendo leva sull’accondiscendenza internazionale. Secondo Rezapour, che ha vissuto la notizia dall’estero, «questo arresto è il risultato di decenni di appeasement con l’Occidente che permette all’Iran di scambiare terroristi con ostaggi innocenti, una strategia con cui il regime esercita pressione sul mondo intero».
Nel 2024 a Teheran ci sono state oltre mille esecuzioni, fra cui anche 34 donne. Un triste primato mondiale, a cui si aggiunge la condanna a morte dell’attivista kurda Pakhshan Azizi confermata negli scorsi giorni. «La liberazione di Cecilia Sala non può che riempirci di gioia», sottolinea Afshar, «ma quando si è diffusa la notizia del suo arresto abbiamo subito cercato di sottolineare come la sua condizione venga vissuta quotidianamente da moltissimi cittadini iraniani, giovani e soprattutto donne, a causa di un regime che ha istituzionalizzato la misoginia».
Da Gent, il giovane ricercatore ricorda invece un precedente che ha riguardato proprio il Belgio: «Nel 2018 un diplomatico iraniano venne arrestato per aver pianificato un attentato terroristico. Dopo una lunga trattativa, il governo cedette alle pressioni di Teheran scambiandolo con un operatore umanitario belga arrestato ingiustamente. Sapevamo che questa politica avrebbe incoraggiato ulteriori azioni simili da parte del regime, e il caso di Cecilia Sala ne è una prova evidente».
Un destino inevitabile
Il caso della giornalista ha riportato all’attenzione internazionale la situazione in corso in Iran, riaprendo il capitolo – tutto italiano – sulle condizioni delle detenute di Evin incominciato con la detenzione della travel blogger Alessia Piperno.
Secondo Ghazal Afshar è necessario un impegno concreto per tagliare i ponti che consentono a Khamenei e al corpo dei pasdaran di tenere sotto scacco il Medio Oriente: «Lo diciamo da oltre cinquant’anni ma ora è giunto il momento che l’Occidente rivolga lo sguardo verso di sé, a tutela della propria sicurezza. Solo troncando la politica di accondiscendenza col regime sarà possibile dare una svolta democratica all’Iran».
A farle eco è Ali Bagheri: «Non possiamo perdere un’altra occasione, la libertà per gli iraniani è un destino inevitabile». La speranza condivisa, fuori virgolette, è che non servano altre Alessia Piperno, Cecilia Sala o Pakhshan Azizi per rendersene conto.
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