In oltre un anno di conflitto, il massacro di Gaza ha raggiunto oltre 42mila morti, le truppe israeliane hanno invaso il sud del Libano e causato oltre duemila morti nel paese, senza contare per ultimo la richiesta di abolire la missione di pace dell’Unifil da parte del presidente israeliano Benjamin Netanyahu.

Il Medio Oriente è entrato in un fase storica, con equilibri geopolitici diversi rispetto a quelli di pochi mesi fa. E in questo contesto mutato, qual è la strategia politica dei capi di stato e di governo di paesi del mondo arabo? I leader di questi paesi non hanno preso posizioni forti di fronte a ciò che sta accadendo nella loro regione, al di là di qualche dichiarazione. L’ultima è la richiesta di uno stato palestinese per la pace formulata dai paesi del Golfo al vertice europeo del 16 ottobre.

La questione è molto complessa e non può ridursi al “pensierino” che i paesi arabi abbiano abbandonato la causa palestinese. Di mezzo ci sono troppi fattori: dalle divisioni all’interne alle questioni economiche, fino alle relazioni storiche con Israele.

Su alcuni stati influisce il rinsaldarsi dei rapporti con Tel Aviv, suggellato dagli accordi di Abramo firmati da paesi come Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan nel 2020. Prima del 7 ottobre, era previsto anche un avvicinamento storico con il Regno saudita, ma il progetto – solo per ora – è stato congelato.

Oltre a Egitto e Qatar, che sono i due grandi player nelle mediazioni, chi conosce gli ambienti diplomatici afferma che gli altri stati hanno comunque eseguito pressioni ufficiose nei confronti di Israele, ma non hanno interrotto le relazioni con lo stato ebraico.

«La popolazione araba ha ancora forti sentimenti filopalestinesi, la leadership invece è molto più pragmatica», spiega Giuseppe Dentice, responsabile desk Africa e Medio Oriente per il Centro studi internazionali. 

«I leader sono consci che la causa palestinese è identitaria, ma anche che il futuro è la cooperazione arabo-israeliana. La causa palestinese è un peso difficile da gestire, ma non può essere abbandonata». Mostrare cautela è l’approccio dell’ultimo anno: «Il fatto di non esporsi o assumere posizioni ambigue maschera un mix di interessi interni ed esterni che dominano le scelte».

Egitto

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Gli egiziani in questo ultimo anno si sono intestati, anche per motivi storici, il ruolo di mediatori insieme al Qatar. Tra il Cairo, Doha e Washington si sono tenuti incontri tra le delegazioni palestinesi e quelle israeliane, proficui soprattutto nella prima fase del conflitto con un cospicuo scambio di prigionieri e ostaggi. 

Al momento sono stati liberati 117 ostaggi: tra questi, 105 hanno ottenuto la libertà negli scambi di prigionieri tra le parti, quattro sono stati liberati da Hamas e otto sono stati salvati dalle forze militari israeliane. Ma il contesto di oggi è diverso da quello dei mesi scorsi. 

«Gli stati arabi sono più pragmatici a livello diplomatico. Sanno che al momento le mediazioni sono inutili, sono percepite da Israele e Hamas come delle debolezze e i mediatori hanno uno spazio risibile», dice Dentice.

Prendere una posizione netta rischierebbe di far chiudere il tavolo delle trattative a data da destinarsi. E questo per l’Egitto, così come per altri paesi dell’area, sarebbe un danno enorme sia in termini economici che umani.

La guerra deve finire il prima possibile, troppo alto il conto pagato finora. Gli attacchi degli Houthi, i ribelli yemeniti sostenuti dall’Iran, contro le navi mercantili che attraversano il Mar Rosso hanno dirottato parte del traffico marittimo che attraversa il Canale di Suez facendo perdere alle casse pubbliche egiziane circa sei miliardi di dollari. Cifre non indifferenti per un’economia che soffre da tempo.

Oltretutto, il Cairo non può permettersi in questo momento di alzare le tensioni militari con Israele, perché significherebbe farlo anche con un alleato prezioso come gli Stati Uniti: parte del suo esercito è dislocato in Africa, dove è in corso una campagna di militarizzazione per risolvere l’annosa questione della diga Renaissance, un affare di stato in sospeso con l’Etiopia.

Per ultimo, Israele è un importante partner energetico. L’Egitto sta consumando a ritmi elevati il gas che produce, tanto che si è trovato costretto a importarne grandi quantità da Israele, per venderlo poi all’Europa con la quale ha preso impegni energetici e commerciali di primo piano. Quando Israele ha tagliato momentaneamente le esportazioni, dopo lo scoppio del conflitto, l’Egitto ha dovuto raddoppiare i blackout a rotazione a due ore al giorno.

La Giordania

Amman e Tel Aviv vantano relazioni diplomatiche e storiche da oltre trent’anni. Questo ha permesso di stringere accordi vitali per la Giordania, che dal campo israeliano di Leviathan importa grandi quantità di gas (per il paese arabo rappresenta il 70 per cento dell’elettricità interna prodotta), ma anche acqua potabile.

La Giordania è uno dei paesi che genera meno acqua al mondo: 950 milioni di metri cubi l’anno su un fabbisogno di oltre 1.4 miliardi. La restante parte è coperta anche da Israele, che ha pure fornito la tecnologia ad Amman per desalinizzare l’acqua marina.

Qatar

Il Qatar è uno dei grandi player delle trattative, accusato più volte di ambiguità perché fornisce ospitalità ai leader di Hamas (Ismail Haniyeh alloggiava a Doha prima di essere ucciso a Teheran).

Dal Qatar l’organizzazione stringeva rapporti e incontrava gli esponenti di spicco della leadership iraniana. Sostegno, quello qatarino, fornito anche per via della vicinanza ideologica di Hamas alla fratellanza musulmana.

Dopo l’uccisione di Haniyeh, il ministro degli Esteri del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, aveva criticato la mossa di Israele anche perché erano i giorni in cui il presidente Usa Joe Biden aveva presentato un suo piano per arrivare alla pace, che aveva ricevuto anche buona parte di consenso.

Washington ha sempre puntato molto sul piccolo emirato, trovando un alleato affidabile. Le relazioni sono molto strette, non è un caso se è tollerata la presenza di Hamas a Doha dove nessuno – salvo grandi sorprese – si azzarderebbe a compiere un attacco militare come quello accaduto in Iran.

Inoltre, il Qatar nonostante non sia parte degli accordi di Abramo è uno dei paesi dell’informale alleanza di difesa aerea (Mead) messa in piedi da Israele con diversi stati arabi. L’alleanza è entrata in funzione lo scorso aprile durante l’attacco iraniano e ha dato tutti i suoi frutti, azzerando l’impatto dei danni.

A fornire aiuto di difesa sono stati paesi come Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e lo stesso Qatar. Ognuno, anche nel piccolo, ha fatto la sua parte.

EAU e Arabia Saudita

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Al di là di qualche dichiarazione di contesto, il regno saudita è silente. Attende e osserva cosa sta accadendo intorno al suo territorio. L’obiettivo principale del principe ereditario Mohammed bin Salman è uno solo al momento: portare a termine il suo ambiziosissimo piano Saudi Vision 2030.

Una guerra a tutto tondo nella regione minerebbe l’intero piano o una parte di questo, come la costruzione della città di Neom nel nord del paese, a pochi chilometri dal Negev israeliano, già in netto ritardo.

Qualsiasi ostacolo da Saudi Vision 2030 rischia di minare gli ingenti investimenti sauditi e soprattutto la credibilità internazionale che bin Salman si sta costruendo con fatica da anni (troppo pesante l’eredità dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi). 

Inoltre per Riad gli Houthi sono stati un annoso problema in Yemen durante gli oltre sette anni di guerra civile e la coalizione occidentale (Prosperity Guardian) creata quasi un anno fa per difendere le navi nel Mar Rosso ha depotenziato le capacità belliche degli Houthi.

Diverso è il discorso per gli Emirati Arabi Uniti, un paese giovane (del 1971) che non ha fatto fatica a firmare gli accordi di Abramo con Israele e a legarsi economicamente allo stato ebraico con investimenti in vari settori tra cui quello energetico e tecnologico. Dagli accordi del 2020, Abu Dhabi è diventato un grande acquirente per l’industria bellica israeliana, arrivando con investimenti fino a quasi tre miliardi di dollari nel 2022. In totale il commercio bilaterale tra i due paesi ha superato i tre miliardi di dollari, rispetto ai 190 milioni di dollari del 2020. Poco prima della guerra è entrato in vigore un accordo di partenariato economico.

«A differenza dell’Arabia Saudita, gli Eau non hanno avuto guerra con Israele. Questo significa stringere accordi di natura economica con meno peso», spiega Dentice.

Hamas e Hezbollah

Molti osservatori imputano parte del silenzio dei paesi arabi su ciò che accade in Libano alle divisioni interne al mondo musulmano tra sciiti (Hezbollah, Iran e altre minoranze in giro per la regione) e sunniti (la maggioranza dei paesi musulmani).

«È una divisione da non sopravvalutare. I rapporti di forza e di potere sono legati agli interessi interni ai vari stati. La religione è solo lo strumento con la quale si esplicitano le tensioni, ma in realtà sono dovute ad altro come ad esempio l’egemonia nella regione», spiega Dentice.

«Che la leadership araba sia indirettamente contenta di indebolire Hamas ed Hezbollah non è un segreto. Ma a differenza di Hezbollah, Hamas è più connaturata all’interno dei meccanismi mediorientali. La storia è più intricata. Vorrebbero farne a meno, ma non possono farne a meno. Hamas è stata capace di tessere importanti relazioni negli anni, è vista come contrappeso a qualsiasi iniziativa di altri paesi nell’area. Verso Hamas c’è molta più difficoltà a prendere posizione rispetto a Hezbollah», aggiunge Dentice.

Questione Unifil

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Per quanto riguarda ciò che sta accadendo alla missione Unifil, gli stati arabi ne sono quasi “immuni”. Gli attacchi alle basi non sono preoccupanti, nessun paese arabo ha truppe di peacekeeping impiegate nella missione tranne il Qatar che, tra l’altro, ha messo a disposizione solo un soldato. Preoccupano invece gli attacchi del governo israeliano all’Onu e al diritto internazionale.

Che fare quindi? Oltre alle dichiarazioni di circostanza, i paesi potrebbero decidere di imporre sanzioni economiche o di bloccare alcune esportazioni commerciali verso Israele, come fatto dalla Turchia lo scorso aprile. Ma questa strategia rischia un effetto boomerang. «Le sanzioni economiche sono un’arma a doppio taglio, possono causare anche effetti opposti e irrigidire ancora di più la posizione di Israele», spiega Dentice.

C’è quindi incertezza, non si può rischiare una deflagrazione del conflitto nell’intera regione. Ecco perché gli stati arabi stanno adottando un atteggiamento di attesa, spesso interpretato con cinismo da una parte dell’opinione pubblica.

Ma è un’incertezza dettata dal fatto che Israele ha intrecciato parte del suo futuro economico con quello dei suoi paesi vicini, e ora interrompere quel rapporto è più complicato.

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