Diplomatici americani ostaggi all’interno dell’ambasciata statunitense a Teheran occupata dagli studenti durante la Rivoluzione del 1979, per oltre un anno. In concomitanza con la fine della presidenza democratica, segnata anche dall’invasione sovietica dell’Afghanistan e dalla crisi energetica.

Quale conseguenza degli eventi iraniani, Jimmy Carter fu il quinto presidente dal 1961 che non riuscì a completare due mandati, e il primo dai tempi di Herbert Hoover che fallì la rielezione.

A vincere fu Ronald Reagan, sessantanove anni, ex governatore della California, ex attore ed ex democratico, sul cui trascorso rinfacciatogli in varie campagne elettorali seraficamente disse «Non ho lasciato io il Partito democratico, il Partito democratico ha lasciato me».

E con ciò segnalò il cambio di paradigma politico ed economico che lo portò a essere sostenitore di Nixon dopo esserlo stato del roosveltiano Truman.

Lo stato è una canaglia

“Government is not the solution to our problem. Government is the problem”. Un manifesto economico chiaro che avrebbe segnato un trentennio della vita sociale e politica degli Usa e dell’Europa, con l’accoppiata thatcheriana («Non ci sono soldi pubblici, ma solo quelli dei contribuenti» e il suo dogmatico “There is no alternative” al capitalismo).

La Reaganomics era lineare nei suoi obiettivi: meno tasse, più offerta, tanto da indurre – questo era l’assunto teorico – crescita, occupazione e maggiore entrate fiscali anche a fronte della diminuzione delle aliquote. Che infatti Reagan fece approvare con una riduzione del 25 per cento in quattro anni.

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Si registrò tuttavia un incremento del deficit anche in relazione all’aumento delle spese militari e nonostante il cospicuo taglio di spese per l’assistenza pari a circa 25 miliardi. Fu abile, pertanto, nel dialogare con il Congresso a maggioranza democratica, ma che egli condusse sulle proprie politiche pubbliche inevitabilmente. Reagan andò oltre quanto seminato da Eisenhower e Nixon, in linea esplicita contro l’intervento statale, quindi il New Deal o la Grande Società di Johnson.

Anche se non riuscì, come nemmeno Nixon seppe, a smantellare le conquiste sociopolitiche degli anni Sessanta e Settanta, seppur vi diede un colpo quasi ferale che segnò i decenni a venire; e nominò la prima donna alla Corte suprema, Sandra O’Connor. Significativa in ambito economico-finanziario fu la nomina alla Federal Reserve di Alan Greenspan paladino del laissez-faire.

Il 1980: la svolta repubblicana

Prima di giungere vittorioso alla Casa Bianca Reagan aveva tentato in passato il percorso presidenziale. Nel 1968 fu candidato alle primarie ma sconfitto da Richard Nixon, e nel 1976 perdette per pochi delegati le primarie contro l’uscente Ford ma fu acclamato dalla convention.

Infine, nel 1980 vinse le primarie contro George Bush durante la convention di Detroit sbaragliando anche la palese ostilità dell’apparato del partito che gli contestava il maggiore posizionamento a destra rispetto all’ex direttore della Cia, che anche grazie a questo incarico e alla precedente esperienza di ambasciatore in Cina venne nominato vicepresidente.

Make America Great Again

“State meglio oggi o quattro anni fa?” Sollecitando forse inconsciamente il concetto di voto retrospettivo Reagan chiese di votare pensando alla condizione economica, molto deteriorata negli ultimi anni a guida Carter. “Let’s Make America Great Again” era lo slogan con cui lanciò il programma includendo l’economia, il ruolo dello stato (al ribasso) e il dominio geopolitico e militare. The Crusader, il crociato, aveva in mente di restaurare la grandezza statunitense, nell’accezione di prendersi cura, ma soprattutto in quella di riportare in auge lo splendore degli Usa, attore egemone nel secolo a loro dedicato per il dominio su molta parte del globo.

Reagan vinse la maggioranza assoluta dei voti popolari (50,7 per cento) e 489 Grandi elettori, giungendo in testa in 44 stati, e riportò il Gop alla maggioranza in Senato, cosa che non avveniva dal 1954. A poche settimane dall’insediamento subì un attentato in cui venne ferito a un braccio e ricoverato. Prima che entrasse in sala operatoria, rivolgendosi al personale medico, disse «Spero siate tutti repubblicani».

Un corrosivo sense of humor che esercitava sistematicamente quale cifra stilistica, ma anche forma di comunicazione, esercitando le spiccate doti retoriche e l’innegabile carisma. Un grande comunicatore che era stato un attore hollywoodiano di medio livello, con all’attivo oltre cinquanta film, e anche conduttore radio. Un vero affabulatore che gestiva con saggezza la popolarità, l’immagine e le parole. Un populista esperto di comunicazione.

Capace ed eccellente nel raccontare barzellette, troppo spesso sottovalutate da politici incolti e bacchettoni (in Italia solo Berlusconi riprese, in parte, quello stile) perché oltre a creare empatia, e quindi anche a ricevere informazioni dall’uditorio in base alla reazione, producono senso comune poiché ripetute, assimilate e diffuse; una forma artigianale di egemonia culturale. Celebri i suoi racconti e aneddoti sulla campagna elettorale, gli incontri nelle aree rurali con cittadini che non lo riconoscevano, le intemerate sottili contro il governo e i democratici, le tasse, e ovviamente i comunisti.

L’Impero del male

Reagan si era intestato l’ambizioso programma di annientare non solo con l’ironia il nemico storico, l’impero (del male) sovietico guidato dai comunisti brutti/cattivi. Che cattivi lo erano davvero stante le condizioni dei Paesi del Patto di Varsavia e delle varie annessioni e invasioni tentate e a volte (mal) riuscite, come il paradigmatico caso dell’Afghanistan.

Per espandere l’impronta americana Reagan intendeva far ripiegare la presenza sovietica, e il roll-back era un programma di respingimento del comunismo, e non solo di contenimento come nelle precedenti amministrazioni. Ronnie voleva anche lavare l’onta del sostegno ai regimi autoritari anticomunisti (in America Latina e Asia) e la vicenda dei prigionieri/ostaggi a Teheran.

Non solo conservatore in economia, Reagan era stato (e rimaneva?) molto di destra in politica interna ed estera. Nel 1969 inviò a Berkeley la polizia a sedare le sommosse studentesche, e sempre in California, stato dalla grande tradizione discriminatoria, sostenne fervidamente il referendum che nel 1964 aveva abrogato le discriminazioni nella compravendita di abitazioni, tanto da valergli l’elezione a governatore due anni dopo.

All’inizio degli anni Ottanta mise in atto il Constructive Engagement verso il Sudafrica schierandosi contro le sanzioni nei confronti del governo segregazionista di Pretoria approvate dal Congresso cui Reagan pose il veto superato però da una nuova votazione legislativa.

Per difendere gli Stati Uniti dal pericolo sovietico e non solo lanciò un programma di Strategic Defence al fine di tutelare il suolo statunitense da eventuali attacchi missilistici. Uno scudo spaziale con chiaro riferimento “divulgativo” alla saga cinematografica di Guerre stellari. E infatti le spese militari crebbero del 35 per cento.

L’onda del 1984 rappresentò il pieno compimento del reaganismo. Reagan ottenne una schiacciante vittoria in 48 stati su 50 (tranne Washington D.C. e il Minnesota di cui era originario lo sfidante Mondale, che pure aveva quale vicepresidente la prima donna candidata in quel ruolo, Geraldine Ferraro). La pressione nucleare potrebbe essere stata una delle variabili che contribuì a far cadere la scelta sovietica sulla leadership di Michael Gorbachev ritenuto meno rigido e più conciliante.

Butti giù questo muro!

“Tear down this wall!” è il celebre monito di Reagan a Berlino dinanzi al Muro, invitando i sovietici, direttamente Gorbachev, a smantellarlo. Era il 1987 e Reagan e Gorbachev si erano già incontrati, partendo dal vertice di Reykjavik del 1986 e di Ginevra l’anno prima, per una serie di storici vertici che segnarono una fase di disgelo, di smilitarizzazione soprattutto in ambito nucleare (eliminazione dei missili a medio raggio in particolare). La Guerra fredda si avviava alla fine, anche grazie al realismo di Reagan.

L’anticomunismo reaganiano reiterato durante tutta la carriera politica e istituzionale, ma anche professionale sin dai tempi della guida della Screen Actors Guild e dell’industria cinematografica, permaneva intatto. Ma aveva trovato in Gorby un interlocutore autorevole e credibile con cui negoziare: pace tramite forza.

Reagan aveva anche dichiarato guerra al terrorismo internazionale (sic!) innanzitutto con il bombardamento della Libia per rispondere al coinvolgimento di Gheddafi nell’attentato che in un nightclub di Berlino ovest aveva causato la morte di due soldati americani. Ordinò l’invio di navi nel Golfo Persico durante la guerra Iran-Iraq al fine di garantire il flusso petrolifero, il cui costò diminuì in ragione del conflitto e della volontà dei due stati produttori di mantenere un canale di accesso al mercato, il che contribuì al contenimento dell’inflazione in Usa e alla crescita dei consumi.

La guerra “Persiana” fu però legata anche a uno dei maggiori scandali della presidenza, quello Iran-Contras del 1986. Dirigenti e militari furono accusati di aver trafficato armi con l’Iran sebbene vigesse l’embargo, e di averlo fatto al fine di agevolare il rilascio di sette ostaggi americani prigionieri di Hezbollah in Libano (organizzazione storicamente legata a Teheran). I proventi furono utilizzati per sostenere i Contras nell’opposizione al governo del Nicaragua.

Il tutto senza l’autorizzazione del Congresso, che già due anni prima aveva negato tale operazione, e con un coinvolgimento politico e morale della Casa Bianca, seppur non implicata direttamente.

La campagna iniziata nel 1980 per ridare all’America «il grande, fiducioso ruggito del progresso, della crescita e dell’ottimismo» passò anche per operazioni spregiudicate – in una costante azione di lotta al comunismo in tutti i continenti – dettate dal realismo, dai rapporti di forza e dal contesto nazionale e internazionale. E in questo Reagan dimostrò di avere grandi capacità adattive in una presidenza che segnò non solo gli anni Ottanta, ma anche i decenni successivi sia in ambito economico che internazionale.

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