«Mia mamma è palestinese, mio padre siriano. Io sono nato e cresciuto a Damasco. Ma vivevo in Libano prima di partire per l’Europa. Mi sono spostato vicino Beirut perché in Siria non c’è vita, non si può fare niente. Solo cercare di guadagnare abbastanza per comprare il cibo». Così racconta Amman, 23 anni, studente di medicina che sogna di proseguire gli studi in Germania: «Perché ci sono le università migliori - spiega - e poi ci abita mio zio, potrei andare da lui».

Amman è un nome di fantasia. Racconta che è scappato dal Libano quando la guerra è iniziata anche lì: «Tra Israele e Hezbollah. Ho visto le bombe, ho visto la gente scappare. Avevo un lavoro in un minimarket, guadagnavo abbastanza. Ma l’ho perso con la guerra. Proprio come è successo anche a mio fratello. Così di nuovo ci siamo trovati a lottare pur di sopravvivere. Ero stanco quando ho deciso di partire. Mia madre ha venduto la sua casa per pagarmi il viaggio».

Circa 7mila euro sembra sia costato ad Amman e i suoi compagni il viaggio da Damasco (è tornato in Siria per ripartire) all’Italia. O meglio alle acque sar maltesi in cui la life Support ha soccorso l’imbarcazione su cui viaggiava, insieme ad altre 37 persone, alla deriva in mezzo al mare da ore. Un viaggio “di lusso” se confrontato con chi ha trascorso mesi nelle prigioni libiche prima di riuscire a imbarcarsi per l’Europa. Ne è consapevole anche lui: «Dalla Siria a Bengasi sono andato in aereo. I miei documenti erano in ordine per il viaggio. Non appena uscito dall’aeroporto alcuni parenti sono venuti in macchina a prendermi, abbiamo fatto un viaggio di 12 ore in auto fino a Tripoli».

Amman non era spaventato. Racconta di essere stato trattato bene dagli organizzatori del viaggio che gli hanno dato vestiti, cibo e perfino il wifi: «Sono rimasto 17 giorni in una casa a Misurata insieme ad altre 13 persone. Fino a quando non è arrivato il nostro turno per partire». Dalle parole di giovane che sogna di diventare un medico si capisce che c’è una specie di lista di attesa a regolamentare le partenze. «Con noi i libici sono stati gentili anche in mare. Ci hanno seguito per qualche chilometro e hanno aggiustato i nostri motori quando si sono rotti la prima volta».

Peccato che qualche ora dopo abbiano smesso di funzionare di nuovo. E i 38 naufraghi siano rimasti soli per ore in mezzo al mare. Senza sapere verso dove o cosa stavano andando. Amman racconta anche che all’inizio del viaggio c’era un gps a bordo che però, «per errore» è finito in mare: «Ma non mi ricordo bene - dice - per la maggior parte del viaggio ero in una specie di stato di incoscienza in cui capivo poco di quello che stava succedendo».

A pensare che chi organizza i viaggi verso l’Europa per persone che non hanno il passaporto giusto per entrarci regolarmente non sia un trafficante bensì l’unica speranza per una vita migliore, è anche Abdel, 18 anni, parla un perfetto inglese americano, è cordiale e silenzioso. Spiega che se fosse rimasto in Siria, dove veniva discriminato per la corrente islamica a cui appartiene la sua famiglia, non avrebbe mai potuto realizzare il suo obiettivo: «Diventare un uomo d’affari, operando principalmente nella blockchain». Parla tutto d’un fiato, senza correggersi, senza incespicare, senza il bisogno di pause per riflettere.

Abdel, infatti, ha le idee molto chiare, lo ribadisce più volte. Niente sembra scalfire il suo sguardo inteso e la sua psiche, nonostante tutto quello che ha vissuto e che succede attorno a lui: «Io non ho paura - dice - non provo emozioni. Ho visto i miei compagni di viaggio piangere, spaventati. Per me non è così. Ero io a rassicurarli quando eravamo alla deriva in mezzo al mare» conclude mentre si aggiusta le maniche della t-shirt verde militare: «Sono stato per due mesi nell’esercito di Assad in Siria. Ma sono scappato, altrimenti sarei rimasto imprigionato lì dentro per tutta la vita».

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