Dice di essere partito da Tripoli, in Libia, nella notte. Ma non sa nient’altro: «Non potevamo alzare lo sguardo. Era buio, vedevo solo la schiena di quello che mi stava davanti», racconta Mohamed, nome di fantasia pensato per tutelare la sua identità. Ha 24 anni, è siriano. Gesticola molto mentre racconta, ma parla in arabo e i suoi ricordi sono offuscati dalla poca voglia di riportarli in superficie.

É stanco si vede dalle occhiaie che gli segnano il volto e dallo sguardo spento, a tratti perso nel vuoto: «C’erano delle persone che ci chiedevano di restare in silenzio, di non guardare. Altrimenti minacciavano di spararci con le armi che stringevano tra le braccia», racconta a proposito della partenza, solo l’ultima delle partenze che fino ad ora hanno segnato il suo viaggio dalla Siria, attraverso l’Egitto, avvenuta nei dintorni di Tripoli nella notte di tre giorni fa: «Ci hanno svegliato di notte e portato vicino al mare. Lì stavamo tutti in fila, zitti, nell’attesa di imbarcarci. Non sapevamo dove fossimo. Quando finalmente siamo partiti avevamo con noi solo una mezza tanica di benzina. Ma uno dei libici ci ha accompagnato in mare per un primo tratto, non saprei dire per quanto. Poi se ne è andato», spiega Mohamed, che sogna una vita migliore in Germania.

Trascorsa qualche ora, Alarm Phone, la rete di volontari che supporta le operazioni di salvataggio in mare, che i naufraghi o chi è conoscenza di un’imbarcazione in difficoltà può chiamare per chiedere aiuto, ha dato l’allarme. La Life Support, la nave di Emergency di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, l’ha ricevuto. E, dopo aver informato le autorità competenti, ha avuto l’ok dal Centro di coordinamento del soccorso marittimo per procedere con il soccorso, come il precedente avvenuto soltanto poche ore prima, nelle acque sar maltesi.

A bordo della piccola imbarcazione blu e bianca in vetroresina, insieme a Mohamed, c’erano altre 33 persone. Tutti uomini, molti con meno di 18 anni, stretti l’uno a l’altro, tanto da potersi muovere solo se coordinati. Tutti senza salvagente sulla barca alla deriva, prima che il team di soccorso Emergency iniziasse la stabilizzazione. Man mano che sono saliti sul rhib della Life Support, i visi tesi dei naufraghi si sono distesi, nei loro occhi è tornata ad esserci luce. Eppure c’era silenzio, forse per l’impossibilità di sapere che cosa stava per succedere. «Siete libici?», ha chiesto qualcuno. «No, siamo un’organizzazione non governativa. Tranquillo. Adesso siediti qui e stai fermo», ha risposto uno dei soccorritori.

«C’è la guerra in Siria, lo sai?»

Tra i giovani a bordo del gommone di salvataggio, stretto tra i compagni, per lasciare più spazio possibile agli altri in attesa di salire, c’è anche, Amman, altro nome di fantasia, 19 anni, vuole andare a vivere in Norvegia e lì fare l’ingegnere.

Ha la kefiah legata in testa: «Ma senza motivo», dice di averla indossata per caso. «Sono di Raqqa. Sono scappato dalla Siria perché lì non possiamo fare nulla. Solo lavorare per comprare il cibo. Niente sogni, niente prospettive. C’è la guerra in Siria, lo sai?», chiede mentre rivolge lo sguardo a terra.

Intanto cala il sole e le operazioni legate al salvataggio arrivano al termine. Così i naufraghi ormai al sicuro a bordo della Life Support scendono nell’area shelter, la zona coperta della nave a loro dedicata. In coda attendono di mangiare la zuppa calda di piselli, qualcuno chiede di fumare ancora un’ultima sigaretta prima di stendere la coperta sul pavimento e finalmente, fermarsi a chiacchierare e conoscere i compagni di viaggio, ora che la vita non è più in pericolo. Almeno per adesso. Di che gli succederà davvero una volta sbarcati sanno poco o niente. Ma tutti sognano un futuro prosperoso, la maggior parte nei paesi del Nord Europa, quasi nessuno in Italia.

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