Rosse le panchine e le scarpette a simboleggiare il sangue della violenza su donne e ragazze colpite da mariti, compagni, padri che trasfigurano la parola amore in male e in dominio assoluto. Rosso il sangue che lasciano branchi sessisti. Rosso quello di donne stuprate nelle guerre col loro scalpo, oggi lo scatto di un Iphone issato per rivendicare l’oltraggio e umiliare un popolo.

È accaduto nel pogrom del 7 ottobre, in Sudan, nella Striscia di Gaza, in Ucraina e in altre terre desolate e percorse da odi e ostilità. Rosso è il sangue nelle carceri dei dittatori, dei talebani in Afghanistan. Chissà se l’artista messicana Elina Chauvet aveva immaginato nel 2009 che la sua installazione, Zapatos Rojos a Ciudad Juàrez, avrebbe attraversato oceani e città.

Guerra tra le guerre

Ma una cosa la sapeva, è acceso un conflitto globale sulla libertà e l’autodeterminazione delle donne, e dunque sulla dignità di ogni civiltà. C’è un filo nero che lega la violenza alle nostre tante Giulie Cecchettin, 106 quest’anno, a sorelle stuprate in angoli diversi della terra.

È il nero di una mascolinità oscura che nei secoli si riproduce per affermare il proprio potere sul nostro corpo e per schiacciare così l’anima e il pensiero che il corpo contiene.

La violenza è una guerra tra le guerre per la libertà, per la democrazia, e chiama in causa la politica, anche come scelta di costruire la pace, il disarmo. Racconteranno che guerre e conflitti sono ineliminabili nella storia, come il contrasto tra Caino e Abele. Aggiungeranno che le molestie e i femminicidi sono insopprimibili perché esiste il “legno storto”, la malvagità dell’uomo talvolta derubricata a follia.

Invece come sempre dipende da che occhiali scegli di indossare e io vedo un irriducibile cammino delle donne, delle ragazze in piazza, per la libertà propria, delle altre, degli altri. Perché se i diritti umani sono la morale della storia, i casi sono due. O le donne non sono umane o se lo siamo, assumere i nostri diritti come programma e destino diventa l’etica e l’identità della politica. Lo stesso deve valere per altre parole intrecciate: laicità, femminismo, pace.

Non solo 25 novembre

Quando si avvicina il 25 novembre è scontato leggere richiami di opinionisti e talk a un’azione bipartisan. Sarà perché sono prima di tutto una donna che qualche lotta l’ha sostenuta credo poco a unanimismi dettati dal calendario. Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, decreta la fine del patriarcato.

Contro la razionalità dei dati - secondo le cifre della polizia di stato è italiano il 72,5 per cento dei denunciati per omicidio volontario contro le donne, mentre il 4 per cento di vittime italiane è stata uccisa da uno straniero - tenta di inquadrare i femminicidi nella visione nativista della destra, evocando il capro espiatorio, migranti o comunque stranieri.

Invece è che la tragedia della violenza di genere ha una portata culturale, civile, sociale che ci riguarda. La premier Giorgia Meloni gli fa da scudo, sorride al presidente argentino Javier Milei e insieme evocano una società delle nazioni a corona di Donald Trump, del suo trionfo di maschilismo, autoritarismo abbracciato a un capitalismo tecnologico che non si accontenta di super profitti. Vuole il controllo delle menti, e magari soprattutto delle più giovani, di adolescenti frastornati da miti di potenza e spaesati nelle proprie solitudini.

La legge di bilancio non offre sufficienti risorse per centri antiviolenza e una rete pubblica di presidi e tutele. Anzi impone tagli ai comuni. L’educazione all’affettività, ai dolori e alle gioie della vita vengono risolti con il voto in condotta, le insegnanti non riconosciute nel loro valore sociale, le donne nello stipendio e nel lavoro.

Uomini che vogliono agire

Ma oltre “il rosso”, c’è il “bianco”. Quello nato in Canada nel 1991, a seguito dell’uccisione di 14 ragazze nella facoltà di ingegneria di Montreal per mano di un uomo che voleva riaffermare la preponderanza maschile in certi campi del sapere.

Così il nastrino bianco è diventato simbolico per gruppi di uomini e giovani che hanno scelto di pensare, e anche su questo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha detto parole giuste.

Intanto, l’intelligenza femminista, o semplicemente di donne e ragazze consapevoli, trasforma i colori: il rosso diventa passione, lotta, orgoglio. Il nero, l’oscurità del potere, contrastato col dolore del lutto che mescola cuori e nutre solidarietà.

La bandiera bianca è quella di uomini (ancora troppo pochi) che vogliono riflettere e agire. È la luce di Gino Cecchettin. Da dietro le sbarre è il coraggio di Narges Mohammadi che rivolge l’appello per una legge europea e mondiale contro l’apartheid di genere. Se indossi le lenti dei diritti umani globali riprende senso rilanciare le istituzioni sovranazionali, Onu, Corte penale internazionale, dare forza alle Costituzioni, scuotere l’Europa assopita e divisa.

Ogni 25 novembre ha un suo anno, oggi l’utopia è il più grande dei realismi e un nuovo internazionalismo di autonomia e di libertà delle donne forse più che un sogno è una necessità della storia.

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