HOPE. Che si trasformò in realtà in una tiepida serata di novembre a Chicago, nel 2008. Proprio nella città in cui esattamente quarant’anni prima i democratici si erano massacrati, dividendosi e consegnando la presidenza all’ineffabile e redivivo Richard Nixon.

La vittoria di Barack Hussein Obama veniva però da lontano, sia nel tempo che nello spazio. Figlio di padre keniota e madre americana, Obama aveva svolto il ruolo di senatore nell’assemblea statale per sette anni e poi senatore federale, ma sempre per lo Stato dell’Illinois, tra il 2004 e il 2008. La vera svolta nella carriera politica di Obama verso la presidenza si ebbe nel 2004, quando tenne un celebre discorso alla convention democratica; c’era tutto il suo programma e anche di più.

Lo spirito della Costituzione e del liberalismo americano. Il sogno, il self-made man (in politica), l’individualismo, il volontarismo, le opportunità, il credo nelle capacità, il merito, la retorica (molta), e l’indomita fiducia nella terra dove tutto è possibile. Un concetto chiave dell’intera campagna elettorale che il presidente eletto riaffermò nella sera della vittoria.

Da Chicago a Chicago: la vittoria del 2008

«Se c’è ancora qualcuno che dubita che l’America non sia un luogo nel quale tutto è possibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è tutt’ora vivo in questa nostra epoca, che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava».

In poche parole, Obama racchiuse e riassunse la sua visione dell’America, della società e della politica, tentando di riconciliare un paese diviso. Lo fece dal grande palco installato a Grant Park dove nel turbolento 1968 si scontrarono attivisti democratici contro la guerra e contro il sindaco sceriffo Richard Delay.

La vittoria presidenziale era stata favorita anche da un’Amministrazione uscente con un consenso bassissimo, che lasciava la Casa Bianca sfiancata da otto anni di guerra al terrorismo mondiale, ma anche di scarsa capacità in ambito economico e sociale.

Il voto fu un trionfo e scacciò molte delle paure circa il rigetto che l’America profonda avrebbe potuto avere nei confronti del primo afro-americano realmente competitivo per la Casa Bianca, che un po' fu la rivincita di M.L. King. Il cosiddetto fattore Tom Bradley che nel 1982 perdette le comunali a Los Angeles proprio per l’ostilità dei bianchi nonostante i sondaggi lo dessero in vantaggio.

E invece Obama travolse Dick Cheney: 28 Stati, 365 Grandi elettori, il 53% del voto popolare. Obama vinse anche in Florida, nell’Indiana del Ku Klux Klan e in Virginia, che non premiava un democratico dal 1964, quando fu eletto presidente Lyndon Johnson. Tuttavia, nemmeno la spinta sul Change riuscì a far aggiudicare ai democratici i cinque stati del Grande Sud, dalla Georgia al Texas.

Quella serata, decisamente storica, rimase funestata dalla morte della nonna materna all’età di ottantasei anni, il giorno prima. E forse per scacciare i fantasmi, umani e politici, Obama aveva trascorso il pomeriggio dell’election day a giocare a basket con gli amici di sempre.

Del resto, Chicago rappresenta Obama, la città dove ha mosso le sue prime gesta politiche, familiari (sposò Michelle, vero consigliere politico) e sociali di rilievo: organizzatore di comunità nella South Side impegnato nel sostegno ai quartieri fragili, e poi avvocato in una piccola società che si occupava di diritti civili. Il tutto magnificamente messo in prosa nel suo libro Dreams from My Father di un decennio prima.

Prima le primarie

A Springfield (Illinois), sulle note di City of Blinding Lights degli U2, Obama iniziò la campagna per le primarie presidenziali e mostrò subito di avere i galloni per il ruolo di commander in chief. Nel simbolismo ricercato, Obama parlò dove Abraham Lincoln tenne il discorso sulla Casa Divisa, - “una casa divisa contro sé stessa non può reggersi”, disse Lincoln -, e il giovane senatore dell’Illinois lo riprese sottolineando l’importanza di un popolo nuovamente unito. Quella ricerca dell’unità che sarebbe stato il leitmotiv, a volte melenso, della politica obamiana per le due presidenze.

Le primarie furono però il vero capolavoro di Obama. Il Blackberry inchiodato sulla mano sinistra, la marea di donazioni private, medie e piccole, la rinuncia al finanziamento pubblico, prima volta dal 1976 per un candidato dei due partiti maggiori. La mobilitazione di giovani, minoranze, neri e donne spinti dalla passione, dalle idee e del fascino politico del candidato democratico.

Obama sconfisse Hillary Rodham Clinton, anch’ella senatore in carica (New York) dopo un’avvincente campagna che si chiuse con il sostegno dei coniugi Clinton a favore di Obama che in cambio nominò Hillary Segretario di Stato. L’inaugurazione presidenziale il 20 gennaio del 2009 a Washington richiamò quasi due milioni di persone.

A Berlino, come John Kennedy

Obama arrivò a Berlino nel luglio del 2008 per tenere un discorso che chiaramente evocava la visita berlinese di JFK del 1963. Gioventù, speranza, futuro, libertà, diritti, pace, tutti temi che fecero crescere la curiosità e l’apprezzamento per Obama e ne accrebbero le similitudini con Kennedy. Dal quale però, al di là delle suggestive associazioni, lo divideva molto, come lo stesso Obama indirettamente, ma chiaramente disse: “non assomiglio agli americani che hanno parlato qui prima di me, la mia storia personale è diversa, una storia americana. Il padre di mio padre era un servo degli inglesi, un cuoco. Berlino è il simbolo della libertà per me, il simbolo di una determinazione alla quale i popoli del mondo devono guardare con ammirazione”.

Al suo fianco quale vice scelse, Joe Biden, longevo senatore del Delaware, personalità completamente opposta a quella di Sarah Palin, governatore dell’Alaska e indicata da McCain. E fu proprio il senatore dell’Arizona che nel testamento chiese che a intervenire al suo funerale fosse Obama e non invitò Donald Trump, da cui aveva preso le distanze.

Obama è stato il primo afro-americano a giungere allo Studio Ovale, come chiaramente non potevano prevedere e forse nemmeno auspicare parte dei costituenti che erano anche padroni di schiavi, arrivandoci direttamente da senatore in carica, come prima di lui soltanto altri due presidenti, tra cui JFK.

Nel 2009 venne insignito del premio Nobel per la pace, il quarto presidente dopo Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson e Jimmy Carter. Le motivazioni legate all’impegno per la non proliferazione nucleare (responsabilità che assunse nel 2010 con la sigla del trattato New Start con la Russia) e alla cooperazione diplomatica, lasciarono comunque molti perplessi soprattutto in virtù all’assegnazione avvenuta prima della fine del mandato presidenziale.

La Casa Bianca e il Governo

Il primo mandato per Obama fu segnato dalle questioni internazionali, innanzitutto la guerra in Iraq (“una pericolosa distrazione”) e Afghanistan, temi su cui aveva dissentito molto in campagna elettorale con McCain. Obama puntava a far ritirare le truppe americane da Bagdad e Kabul e propose la chiusura di Guantanamo, ma il Congresso rigettò tale idea. Con le Camere Obama ebbe un rapporto politico complicato anche dal passaggio ad una situazione di governo diviso, posto che nel 2014 le elezioni di mid-term assegnarono il controllo della Camera dei deputati al partito repubblicano.

Nel 2011 le immagini della cattura e dell’uccisione di Osama Bin Laden fecero rapidamente il giro del mondo, con la coppia Hillary Clinton e Obama nella situation room in attesa della notizia della cattura del noto terrorista dell’11 Settembre. Seguirono momenti di comprensibile sollievo per la società americana e meno edificanti scene di giubilo in strada che richiamavano i villaggi del Far West.

Obama spinse molto per la crescita della spesa federale per rilanciare l’economia nonché per rendere equa la retribuzione per le donne. Ma l’intervento sociale di maggiore rilievo è stato in ambito sanitario, l’azione più incisiva dopo le politiche di Lyndon Johnson. L’Obama Care come colloquialmente è ricordato l’Affordable Care Act fu approvato nel 2010 dal Congresso e mirava a estendere la copertura sanitaria. I risultati furono significativi se si considera che nel 2016 la quota di che ne era sprovvisto si era quasi dimezzata, diminuendo di circa venti milioni di cittadini.

Una controversa e discussa misura, fonte di attacchi duri soprattutto da parte di Donald Trump (politiche socialiste, disse), ma assai popolare anche tra i repubblicani tanto che nessuno volle e/o riuscì ad abolirla, ma nemmeno a modificarla significativamente.

Né blu né rossi, solo Stati Uniti d’America

Four more years! Nel 2012 Obama sconfisse Mitt Romney (Governatore del Massachusetts) con il 51% del voto popolare, numeri leggermente inferiori al 2008, ma che ricalcavano la geografia elettorale dello scontro con McCain.

Obama cedette a Romney l'Indiana e il North Carolina, ma fu rieletto grazie 332 Grandi elettori.

Change. Yes, We can

Obama è stato molto impegnato sul piano internazionale, forse anche per onorare il Nobel ricevuto. Nei confronti dell’Iran ha promosso e concluso un Trattato che ne ostacolasse lo sviluppo di armi nucleari; accordo poi denunciato da Donald Trump nel 2017 che ha ritirato il sostegno USA. Anche sul piano del cambiamento climatico gli USA alla guida di Obama hanno aderito agli Accordi di Parigi firmato da altre 195 nazioni per ridurre le emissioni di gas serra e rallentare il riscaldamento globale.

Fedele all’impegno sociale e per i diritti civili, e anche per rimanere nella storia, come tentano tutti i presidenti durante il secondo mandato, Obama ha mostrato l’attenzione per la “questione nera”. Sincera commozione all’inaugurazione del Museo Nazionale di Storia e Cultura Afroamericana ed era in testa durante il cinquantesimo anniversario della marcia per i diritti civili da Selma a Montgomery: “la nostra unione non è ancora perfetta, ma ci stiamo avvicinando”.

Yes, We Can!, che richiamava il Sì Se Puede coniato nel 1972 dal sindacalista Cesar Chavez impegnato a favore dei braccianti agricoli di origine ispanica, fu uno straordinario slogan sintesi dio un’attitudine prima che di un progetto politico.

Otto anni di presidenza che entrarono nella storia. E quel poster adottato per la campagna del 2008 divenne una icona e Obama un simbolo e una voce ascoltata dai democratici, rimanendone leader.

La sconfitta per interposta persona

La prima volta che Obama apparve in seria difficoltà sul piano retorico, politico e molto teso su quello istituzionale, fu quando accolse Donald Trump alla Casa Bianca dopo che aveva sconfitto Hillary Clinton, non sua prima scelta, ma certamente sostenuta per evitare l’indesiderato tycoon.

Disse molte cose dinanzi a un silenzioso Trump, palesemente impaziente di accedere al potere tanto agognato. Era come se Obama parlasse a sé stesso, pronunciando una serie di auspici su cosa “l’elected president” avrebbe dovuto e non dovuto, soprattutto, fare. Ma questa è un’altra storia.

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