A bordo dell’imbarcazione della ong fondata da Gino Strada, i racconti dei migranti scappati dall’Egitto. L’effetto deterrente del cpr voluto da Meloni sembra nullo: «Siamo disposti a tutto pur di avere una vita»
Amir, Fakhir, Hassan, Ibrahim e Farid siedono in cerchio. Scalzi per non sporcare le coperte ignifughe color cammello che riempiono il pavimento della “shelter area”, la zona della nave di Emergency, la Life Support, dedicata all’accoglienza delle persone salvate in mare. Sono 72 quelle soccorse durante la 25ª missione, mentre la nave dell’organizzazione fondata trent’anni fa da Gino Strada si dirige verso il porto di Livorno, il luogo sicuro di sbarco assegnato dalle autorità italiane. A quasi quattro giorni di navigazione dalle coordinate dei due salvataggi, avvenuti nelle acque Sar maltesi il 31 ottobre.
La maggior parte dei naufraghi proviene dalla Siria, anche se c’è chi scappa da Libano, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Niger e Nigeria. In tanti si conoscevano prima di partire, si sono fatti forza per affrontare le incognite del lungo tragitto che li separa da casa. Altri, invece, si sono incontrati per la prima volta in Libia, nell’attesa di imbarcarsi per raggiungere l’Europa: «A ogni costo. Nonostante la paura di morire. Perché la vita che facevo in Egitto non era vita», confessa Hassan. Ha gli occhi enormi, di colore verde così chiaro da sembrare trasparenti, la barba e i capelli ricci, neri come la pece, un sorriso che gli riempie il volto anche mentre racconta che a casa, nell’area di Aswan, dove la sua famiglia è rimasta, non aveva neanche i soldi per mangiare: «Sono felice perché arriveremo in Italia, dove finalmente portò costruirmi la vita che voglio», afferma risoluto, prima di iniziare a raccontare com’era la sua quotidianità: «La società in Egitto è divisa in due. Da un lato ci sono i ricchi, dall’altro i poveri. Che sono veramente poveri», chiarisce mentre i compagni fanno cenni di approvazione con il capo: «I giorni in cui riuscivo a lavorare, come muratore o nelle campagne, guadagnavo al massimo 3 dollari, non bastano neanche per il pranzo».
Non è un paese sicuro
Le mani di Hassan si muovono veloci, come quelle dei suoi amici: al centro del cerchio formato dalle gambe incrociate dei 5 egiziani ci sono le tessere del Domino, il gioco da tavolo cinese in cui Hassan Amir, Fakhir, Ibrahim e Farid sono maestri.
Ma a vincere è sempre Fakhir, che quando esulta si fa notare. È così pieno di energia da non star fermo neanche di notte. Quando gli altri naufraghi si coprono il volto con le coperte per riuscire a dormire nonostante le luci che nei corridoi della nave rimangono accese, lui salta, di quattro in quattro, i gradini che collegano il ponte coperto a quello scoperto, ignorando le occhiatacce di chi ha sonno.
Fakhir è il più piccolo tra il gruppo degli egiziani. È partito da solo anche se non ha ancora 16 anni. «Voglio restare in Italia per lavorare», dice mentre giochicchia con il pacchetto di sigarette che tiene sempre a portata di mano. Vale lo stesso per i suoi connazionali, tra i pochi naufraghi a non volersene andare dall’Italia subito dopo lo sbarco.
«Sono scappato dal mio paese perché desidero un futuro che lo Stato di al Sisi non è in grado di garantirmi», continua a ripetere Hassan: «Non sarei partito, altrimenti. L’Egitto non è il paese che voi europei pensate che sia. Siete abituati a vedere le fotografie dei luoghi del turismo, invece c’è tanta povertà. In più nel nostro Paese non è possibile esprimere liberamente i pensieri. Il rischio d’arresto è molto alto: se critichi il governo vieni portato in prigione, se spieghi come è la realtà davvero finisci in prigione. Anche mentre stavamo scappando, se fossimo stati scoperti, saremmo stati rinchiusi in prigione. E non solo noi, ma anche le nostre famiglie».
I 5 egiziani, infatti, raccontano di essere riusciti a fuggire fino in Libia di nascosto: «Mia mamma ha venduto la casa per darmi i soldi per il viaggio», circa 5mila dollari, a quanto si capisce incrociando i racconti: «Una volta arrivato a Tripoli, sono stato arrestato tante volte», rivela Hassan abbassando lo sguardo. Ricorda che aveva fame, ma non c’era mai abbastanza cibo per tutti nei lager alla periferia della città libica più popolosa.
Ricorda anche che la violenza era all’ordine del giorno: «È passato così tanto tempo da quando sono partito che alcuni della mia famiglia pensano che sia morto, altri hanno ancora speranza. La prima cosa che farò appena sbarchiamo sarà chiamare casa», dice tutto d’un fiato, tanto che anche Yassin Ramadhan Afa, il mediatore culturale di Emergency, fa fatica a comprendere per tradurre dall’arabo all’inglese: «L’Egitto non è un paese sicuro», sussurra.
L’Albania non fa paura
Dalle sue parole, si capisce che Hassan e i compagni, uomini all’apparenza in buona salute, maggiorenni fatta eccezione per Fakhir, sanno o almeno hanno sentito parlare delle novità in materia di politiche migratorie che il governo Meloni sta provando a mettere in atto negli ultimi mesi. Dall’intesa con l’Albania per deportare fuori dall’Unione europea i migranti che dopo tanta fatica e sofferenza arrivano a intravederne i confini alla volontà di definire sicuri Paesi che per molti degli abitanti non lo sono affatto. In modo da avere un appiglio legale per respingerli nel luogo da cui sono scappati. Che, però, come spiega Nicola Datena, avvocato e socio di Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, tanto legittimo non è: «La nuova lista dei paesi sicuri, anche se adottata con un decreto legge, non risolve le criticità che hanno portato alla non convalida dei trattenimenti in Albania da parte del tribunale di Roma. Secondo le norme europee, un Paese può essere definito sicuro se è completamente sicuro, per tutti e in tutte le sue parti. La nuova lista stilata dal governo italiano, invece, ancora contiene Paesi, come Egitto, Bangladesh e Tunisia, che secondo le stesse informazioni utilizzate dal ministero non sono sicuri per intere categorie di persone e per interi gruppi sociali». Così, per Datena, la decisione di far ripartire la nave Libra con i migranti a bordo verso i centri di Shengjin e Gjader ha solo l’effetto di aumentare il livello di scontro politico e istituzionale, «attraverso una sadica sperimentazione sulla pelle delle persone».
A pensare che il trasferimento in Albania delle persone soccorse non faccia altro che reiterare pratiche illegittime e che «ci pone di fronte a un nuovo capitolo dell’esternalizzazione delle frontiere che costerà oltre un miliardo agli italiani» c’è anche Davide Giacomino, dell’ufficio advocacy di Emergency. Come chiarisce, infatti, per la sua collocazione geografica, Shengjin, il porto deputato allo sbarco dei migranti che si trova nell’Albania del nord, non dovrebbe essere considerato “place of safety” per chi viene soccorso nel Mediterraneo centrale. Perché arrivarci significa costringere i naufraghi a un viaggio più lungo del necessario, posticipando la richiesta di asilo e l’accesso a servizi essenziali: «Inoltre una nave non è un luogo adatto per realizzare uno screening attento alle esigenze delle persone», aggiunge per sottolineare che a bordo dell’imbarcazione della Marina militare è possibile fare solo un controllo approssimativo dei naufraghi. Proprio come è successo durante il primo viaggio della Libra, quando 4 dei 16 migranti individuati come idonei per l’Albania sono stati fatti tornare in Italia. Stesso destino che probabilmente toccherà anche agli otto migranti deportati con l’ultima spedizione e che attendono la decisione sulle convalide. «Ma è la stessa logica di dividere i migranti tra vulnerabili e no che contestiamo. Perché tutte le persone soccorse in mare, in quanto naufraghe, dovrebbero essere considerate vulnerabili e raggiungere un luogo sicuro nel minor tempo possibile», conclude Giacomino.
Consapevole, ancora di più vista la sua professione, dei vissuti difficili e della sofferenza provata dalle persone che trovano il coraggio di attraversare il Mediterraneo centrale, la rotta più letale al mondo, secondo le Nazioni Unite: «Quando sono partito ancora non si parlava dell’intenzione dell’Italia di portare i migranti fuori dall’Europa. Ma anche se l’avessi saputo sarei partito lo stesso. Ho paura, certo, ma per me è l’unica possibilità per avere una vita. Sono disposto a tutto per non perderla», taglia corto Hassan.
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