L’attore, morto ad agosto di quest’anno, ha segnato il cinema. Un mondo per il quale lui stesso aveva dichiarato di non essere nato
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Nel 2012 Alain Delon è al Festival di Locarno, in una delle sempre più diradate uscite pubbliche che condiscono la sua ultima parte di carriera. A Locarno, Delon è venuto per ritirare il Pardo alla carriera, sfuggente come sempre e come consta ad una grande star. Appare però inusitatamente disponibile durante la conferenza stampa a ripercorrere i tratti salienti della propria carriera, sempre con la nostalgia e la malinconia che sono ormai il suo bagaglio fisso per tutta l’ultima parte della sua vita.
Ed è durante il dialogo con i giornalisti che dichiara spudoratamente: «Io non sono nato per fare cinema». Aggiungendo subito dopo: «Nessuno nella mia vita faceva cinema e nessuno nella mia vita conosceva gente che faceva cinema». La dichiarazione in forma quasi di avvertimento di Delon è fondamentale per comprendere il suo approccio al cinema, molto tipico di una generazione di attori e artisti, ma anche la sua fascinazione per la tragedia, figlia di un’infanzia complicata, poverissima e non poco violenta.
La poetica
Dunque orgoglio e malinconia condite da un senso profondo e ineluttabile di tragedia, un sentimento costante e sempre imminente dallo scatenarsi. Delon vive la rinascita dell’Europa di cui lui sarà assoluto protagonista, ma al tempo stesso assiste allo sgretolamento di un tempo premoderno a cui lui stesso si sente ancorato. E lo fa partecipando però attivamente – con la costruzione di un’immaginario nuovo e seducente – ad affossarne gli stilemi rinchiudendolo in un passato violento di guerra che tutto il continente vuole dimenticare per sempre. Una contraddizione e un nodo che non lo abbandoneranno mai, permettendogli per al tempo stesso di dare forma a personaggi sfaccettati e ambigui, inquieti e in qualche modo sempre un po’ simpaticamente ottusi.
Esistono attori e commedianti, ci teneva a ricordare spesso Delon, e lui faceva parte della prima categoria, quella di chi non ha studiato recitazione e non ha inseguito il cinema, ma dal cinema è stato cercato. Coloro che non mettevano in scena un personaggio, ma lo introiettavano dentro il proprio sé non interpretandolo, ma facendosi interpretare. Una differenza che lo opponeva a Jean-Paul Belmondo, figlio di artisti e attore nato. Una differenza che ha permesso a Delon di scavare e rendere assolutamente aderenti a sé stesso figure come quella di Tom Ripley in Plein soleil, di Jef in Le samouraï e forse quella che più di tutte lo contiene, di Daniele Dominici nel capolavoro di Valerio Zurlini, La prima notte di quiete.
Erede designato di Jean Gabin, Alain Delon si trova a interpretare personaggi di negletti, ultimi della società senza alcuna possibilità di riscatto. Come nello straordinario e troppo dimenticato La veuve Couderc di Pierre Granier-Deferre e nel seppur meno riuscito, ma sempre vibrante Deux hommes dans la ville di José Giovanni. In questi due personaggi di criminali romantici Delon riassume una poetica che è di vita e di cinema insieme (non gli era possibile scindere le due cose). Sono pellicole che riprendono una cinematografia di genere, ma in un tempo post, in anni in cui la nouvelle vague – siamo negli anni Settanta – ha già lasciato un’impronta decisiva e innovativa. E in tal senso Delon si trova a fare da ponte e in qualche modo a portare quel cinema, sbeffeggiato non poco da Godard, e il suo grande pubblico verso un cinema contemporaneo, che poi lui dirà sempre di odiare o quanto meno di non considerare, ma che è comunque fortemente influenzato proprio dai suoi personaggi, prima ancora che da film non sempre alla sua altezza.
Una duttilità che apparentemente solo apparentemente confina Delon nel genera, ma che invece gli permette di uscire dai confini nazionali divenendo insieme a Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve uno dei primi attori realmente europei, grazie anche alle dinamiche produttive che intrecciarono tra loro la cinematografia francese e quella italiana, tra le più importanti al tempo. Un attore globale, capace di bucare nel mercato americano e di diventare una vera e propria divinità in Giappone, che porta con sé sempre i segni riconoscibili di un’origine francese estetica e culturale che se pure perde sostanza nella realtà e nelle strade di Parigi – dove la moda e la cultura sembrano seguire strade anche diametralmente opposte –, resistono però fortemente nell’immaginario mondiale. Un salto di scala che poi inevitabilmente ritorna di volta in volta come una citazione ormai ovvia al punto che Delon arriva a trasformarsi in un vero e proprio brand (dai mobili ai profumi) oltre che in una figura gergale.
Un riferimento assoluto come saprà cogliere nel 1990 proprio Jean-Luc Godard chiamando Delon come protagonista di Nouvelle Vague in cui il citazionismo gordardiano è portato al limite estremo fatto di continui fuori sincroni che mischiano dialoghi a citazioni filosofiche e letteraria. Il suono e il dialogo in forma di rumore di fondo che anticipa quelli che saranno gli ultimi lavori del regista svizzero.
La vera impronta
Nouvelle Vague certifica ed esplicita come la carriera di Alain Delon splenda particolarmente più nelle opere considerate minori o poco riuscite. Opere accolte poco e male da pubblico e critica che ora appaino perle rare se non pietre miliari della storia del cinema (e del costume) in grado di competere con i sempre citati Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo di Luchino Visconti.
L’impressione è infatti che la vera impronta di Delon sia quella inizialmente lasciata da Jean-Pierre Melville più che da Luchino Visconti che pure certamente plasma il giovane attore dandogli una forma possibile e inedita fin ad allora. Ma è in quella forma di disincanto e violenza, bellezza e fragilità offertagli da Melville che si compie quellla totale mutazione che porta il divo ad aderire totalmente, anche nella vita privata, alla sua stessa maschera.
Un’esistenza che ritorna così direttamente nei suoi personaggi come un’esplosione di senso sia intimo che pubblico. Basti citare il bellissimo Monsieur Klein di Joseph Losey e il proustiano barone di Charlus in Un amour de Swann di Volker Schlöndorff. Un cinema che lo contiene totalmente e che offre a Delon una cornice possibile e una proiezione del sé necessaria a dargli un senso all’interno di una fragilità dettata da una vita in qualche modo desiderata quanto perennemente scippata, Una vita che per certi versi risulta perfino a lui stesso irriconoscibile e dentro alla quale si muovo non di rado come un estraneo in una frenetica posa di se stesso.
Un inseguimento fatto di rimpianti e di mancanze, di dolori sempre esaltati e di amori in qualche modo traditi e negati al di là delle banalità mondane e del gioco, magari ingenuo, ma pur sempre in grado di violare l’intimità come quello dei rotocalchi dai titoli roboanti tanto utili alla fama quanto al proprio stesso inabissamento, titola Gente del 17 dicembre 1964: “A colloquio con il traditore Alain Delon: «Mia moglie e Romy sono meravigliose»”.
Il Daniele Dominici de La prima notte di quiete diviene così ad oggi forse il ritratto più preciso e aderente di un attore totale e assoluto. Uscito nelle sale nel 1972, nonostante venga seguito nel 1976 da Il deserto dei tartari, La prima notte di quiete resta il testamento artistico di Valerio Zurlini. Riproposto in sala a giugno in una versione restaurata per i centoventi anni della Titanus, il film vive un’intensa e complicata gestazione, anche a causa del complicato rapporto tra Delon e Zurlini. L’attore francese infatti oltre che protagonista è anche il produttore, condizione che diventa quasi sempre obbligatoria dagli anni Settanta per chi voglia lavorare con lui. E motivo anche della scelta di Bernardo Bertolucci di affidare a Marlon Brando il ruolo del protagonista maschile per Ultimo tango a Parigi, inizialmente pensato proprio per Alain Delon (dopo una trafila che vede passare tra potenziali protagonisti anche Jean-Louis Trintignant e Marcello Mastroianni).
Valerio Zurlini si costringe all’operazione rendendosi conto che è una delle sue ultime possibilità per realizzare un film a lungo covato e pensato e così Delon che non vuole perdere l’occasione di aggiungere l’ennesimo grande autore a quella che lui vede ormai come una vera e propria collezione privata di registi. Tuttavia gli scontri sono continui, quasi quotidiani. Come in un gioco delle parti, ma a ruoli invertiti è infatti Delon che indaga e insegue il regista, per coglierne le intenzioni più profonde e intuirne lo stato psicofisico fino a portarlo sadicamente alla crisi.
L’autoesclusione
Un sadismo però per Delon necessario, quasi come se fosse l’unico linguaggio a lui in possesso. È infatti in questo modo che afferra l’anima necessaria a mettere in scena la figura tragica e dolente di Daniele Dominici, anche appropriandosi del cappotto di cammello del regista (di almeno tre taglie più grande) che diventerà tra le altre cose uno degli oggetti più riconoscibili del cinema di quegli anni insieme ovviamente a quello di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi (forse non a caso). Una battuta in particolare farà infuriare gli spettatori militanti dell’epoca (ovvero quasi tutti), pronunciata da Daniele Dominici, nella sua ambigua postura di supplente di letteratura. Rivolgendosi ai suoi studenti, Dominici li avverte infatti che: «Per me rossi o neri siete tutti uguali. I neri solo più stupidi». Tacciata di qualunquismo la battuta messa in bocca da Zurlini a Delon è in realtà una dichiarazione di chiara auto esclusone (obbligata) dalla società e dai suoi impicci oltre che la riduzione (inaccettabile a sinistra) della cosa politica a bagattella, tanto più di fronte alla meraviglia rivelatrice di Piero della Francesca che s’impone in una scena icastica in cui lo stesso Dominici illustra la Madonna del parto di Monterchi alla giovane e già disillusa Vanina, interpretata da Sonia Petrova.
Dominici porta infatti su di sé la forza e la decadenza di passato glorioso, ma al tempo stesso dettato da follia e degenerazione. Causa fondante di vita dilapidata in perenne fuga dai palazzi e dai trofei di famiglia. Dominici non è così altro che destinato a cadere sotto i colpi del suo stesso eroismo romantico Un sentimento ormai privo di spazio in una società del consumo che sembra inseguire ben altri più greviscopi, come i vitelloni invecchiati e incattiviti interpretati da Renato Salvatori, Giancarlo Giannini e dal bravissimo e sempre poco citato Adalberto Maria Merli.
Stoicismo démodé
Il piacere per Delon è sempre legato a doppio filo al dolore, a una sorta di violenza congenita che pure contribuisce fortemente al suo fascino. Una forma malinconica di stoicismo démodé che è però anche il segno evidente e patologico di un maschilismo tossico che però in qualche modo lo stesso Delon contribuisce a svelare e a rendere inaccettabile, anche al di là delle sue intenzioni. Perché se in quegli anni e anche oggi, funziona ancora il Ma chi ti credi di essere, Alain Delon? È anche perché certi comportamenti, certi atteggiamenti un po’ buzzurri e un po’ violenti non sono cosa, tanto più se non si è Alain Delon, ovvero quella maschera e quella rappresentazione ideale e irreale oltretutto ormai non più replicabile, dell’essere maschio e dell’essere uomo.
Imprigionato nella sua maschera, al di là della risibile interpretazione di Giulo Cesare in Asterix alle Olimpiadi del 2008, Delon chiude in realtà la sua carriera nel 2000, con un cameo nel rutilante Les acterurs dell’amico Betrand Blier, interpretando infine proprio se stesso e solo se stesso. Delon appare sullo schermo arrivando direttamente dal buio, siamo su un set cinematografico in cui si cerca ossessivamente il protagonista, ovvero Jean Gabin, scomparso e inspiegabilmente non più raggiungibile. Delon giunge così per avvertire che lui è l’ultimo dei grandi e che non c’è più nessun altro. Lui ha il compito di chiudere la porta per sempre a quell’idea di cinema e di racconto. È un’apparizione ironica eppure grave, Les acteurs porta in scena tutti grandi attori francesi viventi in una scorribanda divertente e commovente insieme, eppure l’arrivo di Delon ferma il tempo, come un’impronta imprescindibile. Inutile dire altro, c’è un prima e c’è un dopo Alain Delon.
In tempo in cui chi scrive un romanzo si sente in dovere d’inserire nelle note biografiche dove si è laureato e pure se ha fatto un master, nemmeno fosse un candidato al parlamento europeo, la forza viscerale del cinema interpretato da Alain Delon ricorda fortemente il mistero di un talento che contiene dentro di sé un desiderio di libertà assoluto che non può mai essere limitato da nessun tipo di scatola, categoria, gruppo o ideologia, anche a costo di apparire antimoderno, antidemocratico e misantropo, cose che per altro appartenevano in toto al grande attore francese.
Perché non contano le scuole in quanto istituzione e non contano le relazioni in quanto dinamiche di potere. Tutto invece si basa su una necessità drammatica e contemporaneamente estrema, quella di un giovane uomo, abbandonato dalla madre, già reduce di guerra che vive come un vagabondo in una Parigi di cui non conosce nemmeno l’esistenza del Café de Flore. La sua unica possibilità la sua bellezza. Parte da lì, da una passeggiata lungo boulevard Saint-Germain tra i tavolini del Café de Flore, la carriera di Alain Delon. Come racconta il figlio Anthony nel bel memoir Dolce e crudele (Sperling & Kupfer, 2022), i tavolini si ammutoliscono e tutti osservano quel giovane, è la storia del cinema che passa e che sta arrivando con tutta la sua carica di erotismo e seduzione.
E poi c’è la fiducia, la famosa e spesso abusata stretta di mano da cui tutto parte in quel mondo maschile fatto solo di maschi al lavoro e di amicizie virili che vengono dalla guerra. Amicizie condite da quel rispetto naturale che nasce tra ex combattenti, tra vagabondi e disperati in cerca di fortuna perché di questo soprattuto è fatto il cinema in quegli anni: ambizione, rischio e una gioiosa irrazionalità. Proprio come l’amicizia che si salda tra lui e Lino Ventura, protagonisti dello splendido Les aventuriers diretto da Robert Enrico nel 1967 e da poco restaurato, in cui Manu Borelli, interpretato da Delon non potrà non sfuggire (ça va sans dire) a una drammatica sorte.
La tragedia
La tragedia è sempre inseguita e indagata con ossessione dall’attore francese, anche al costo del ridicolo, soprattutto per come i tempi cambiano ed evolvono attorno a lui. Una morte in vita in cui Delon si riduce e poi permane nel suo ostinato isolamento nella tenuta di Douchy. Un’ostentata contrarietà all’evoluzione dei tempi che al di là delle polemiche dovute alle sue più o meno volgari esternazioni, definiscono il tratto di un’archeologia in vita frutto però della medesima voglia di velocità che fu al centro di una giovinezza tanto spesa quanto fortemente celebrata e che finisce per riversarsi in una lunga notte dell’esistenza, in una vecchiaia che come ribadì più volte Delon fa solo schifo.
Scrive Andrew Marvell, nella bella traduzione a cura di Gilberto Sacerdoti (Rifacimenti, Molesini 2024) «…divoriamo il nostro tempo subito, piuttosto che languire nella lentezza delle sue mascelle. Tutta la forza, tutta la dolcezza, facciamone una palla, strappiamo via i piaceri con violenza dalle grate della vita. E se non fermeremo il nostro sole, lo faremo correre».
© Riproduzione riservata