È stata l’uscita per Mondadori di Vicino a casa, il bel romanzo d’esordio di Michael Magee che racconta la vita di un gruppo di ragazzi a Belfast, che mi ha riaperto la ferita e ha riacceso il rimpianto di un altro scrittore irlandese, di un suo romanzo che pubblicò sull’essere giovani a Belfast, unità di luogo e azione di una grande tragedia novecentesca, e di un altro suo romanzo che invece non pubblicò e forse non pubblicherà mai più.

Per cui la storia che segue è, al fondo, un rito propiziatorio, una danza dell’inchiostro così come si faceva la danza della pioggia, un augurio che presto sia pubblicato quel romanzo mai pubblicato (un romanzo in fin dei conti è una pioggia d’inchiostro), tante volte promesso e non dato. Il romanzo che aspetto da ventotto anni di uno scrittore di cui abbiamo bisogno, oggi specialmente.

Eureka Street

Ventotto anni fa usciva un capolavoro, Eureka Street di Robert McLiam Wilson, all’epoca un giovanotto 32enne di Belfast. Il libro piacque molto, in particolare in Francia. Ma anche in Italia, pubblicato da Fazi, lo accogliemmo bene (io soprattutto). E poi continuò a piacere fino a trasformarsi in qualcosa di più di un libro, nel talismano di tante giovinezze. Eureka Street continua a circolare e a raccogliere nuovi adepti. Il suo autore, invece, ha escogitato un sistema efficace per sparire dalla scena (alla Salinger) pur senza sparire del tutto. Nel senso che assicura una sua presenza, centellinata, discontinua, con sporadici interventi su Twitter e con articoli sulla rivista Charlie Hebdo (questi ultimi per una ragione più sentimentale che satirica: l’omaggio alle vittime dell’attentato terroristico del 2015 fatto da uno che per trascorsi nordirlandesi sa, sulla propria pelle, cos’è il terrorismo). Però, in realtà, McLiam Wilson è diventato un clandestino, forse anche di sé stesso, un compagno segreto per dirlo con Conrad.

L’incipit di Eureka Street («Tutte le storie sono storie d’amore», probabilmente un campionamento da Tolstoj: «Tutte le famiglie felici…») è diventato proverbiale.

Il grande scrittore russo («the old Leo») è citato due volte nel romanzo. Una volta quando McLiam Wilson rivela la sua poetica (come si chiamava un tempo) dicendo che la vita di una persona, persino la più banale, è un racconto che sconfiggerebbe anche il Tolstoj migliore e più voluminoso. Ma lo scrittore a cui nel libro si rende l’omaggio più caloroso non è il vecchio Leo e nemmeno (come uno potrebbe aspettarsi trattandosi di questioni irlandesi) James Joyce, bensì Charles Dickens, al quale nel romanzo è riservata una specie di serata d’onore, una esibizione speciale come quelle che usavano dare i grandi primattori teatrali giunti al termine delle loro gloriose carriere. Darei tutte le lectio magistralis e lauree honoris causa, che oggi è di moda impartire o conferire per ragioni quasi sventurato paese (mi riferisco all’Italia e non all’Irlanda), per una serata d’onore di una volta.

Charles Dickens

The old Charles è stato fondamentale nella vita e nell’arte di McLiam Wilson. Suo padre, un alcolizzato che ogni tanto lo picchiava di brutto, almeno una cosa buona la fece nella sua esistenza, una cosa per cui il figlio maltrattato gli ha sempre portato gratitudine. Robert aveva sette anni quando il padre gli regalò l’opera omnia di Dickens. Furono i romanzi galeotti che fecero nascere nel bambino un folle amore per la letteratura. Poi ci furono altri romanzi galeotti (di Stendhal, Thackeray, George Eliot) che il giovanissimo Robert, povero in canna, rubava con destrezza nelle librerie tanto che fu necessario prendere provvedimenti. Il settenne Robert fu spedito da uno strizzacervelli e non si è mai capito bene il motivo per cui finì sul divano dello psicoanalista, se perché era un ladro o se perché coltivava letture reputate troppo precoci e osé per uno della sua età.

Se il padre regalandogli i libri di Dickens fece scattare la prima scintilla della vocazione di Robert, la madre diede il suo contributo alla causa trasformandolo direttamente in un personaggio dickensiano. I Wilson vivevano a Belfast nel quartiere proletario e cattolico di New Lodge ed erano molto proletari e cattolici come il contesto richiedeva. A 15 anni Robert si innamorò di una ragazza inglese e protestante e la cosa fece scandalo tra i vicini di casa. Una specie di riedizione irlandese di West Side Story, il musical di Leonard Bernstein che, a sua volta, era la versione newyorkese di Romeo e Giulietta, della faida tra i Montecchi e i Capuleti. Allora la mamma di Robert cacciò il figlio di casa e lui visse come un barbone per otto mesi. Da personaggio di Dickens in carne e ossa, Robert dormiva nel parco di un castello, però non si lasciò andare alla deriva e riuscì comunque a frequentare la scuola. Anni dopo ricordò così l’esperienza: «Di quel periodo ho una precisa percezione del freddo. Non avrò mai più così freddo, di sicuro».

La sua stagione da homeless gli ispirò nell’89 il primo romanzo Ripley Bogle, Fazi, che ha tutte le stimmate del romanzo d’esordio, un brogliaccio di stile e di tecniche dal quale traspira già un indubbio e cospicuo talento.

Aspettando la gloria

In una storia di Dickens, Robert sarebbe stato adottato da una famiglia di malfattori, di sadici, di sfruttatori di bambini, essendo la poetica dickensiana riassumibile nell’espressione «cadere dalla padella nella brace». Con lui il destino fu più clemente e per una volta la vita fu meglio della fantasia. La famiglia che lo adottò era sempre una famiglia proletaria, quindi soldi continuavano a girarne pochi, ma era una coppia di persone brave e affettuose e Robert non si stancherà mai di ringraziarle e cercherà di ripagarle dando loro soddisfazioni, motivi di orgoglio. Qualche anno dopo, infatti, lo ritroviamo studente addirittura in un college di Cambridge. Lo molla sul più bello perché il richiamo della foresta si fa sentire: «Comprai una macchina da scrivere per iniziare una tesi su non ricordo quale argomento, e ne venne fuori invece il primo capitolo di un romanzo». Mi piace immaginare che il romanzo fosse Ripley Bogle, e che le prime righe battute a macchina ne fossero l’incipit che è, sperimentalmente come tutto il libro, in forma di didascalia: «(Entra un uomo con del denaro. Aspetta. Entra una donna, discinta e appassionata. Scopano. Escono)».

Aspettando la gloria letteraria, McLiam Wilson non se ne sta con le mani in mano. Fa il muratore, il commesso, la guardia giurata. Vende finestre (avrebbe qualcosa da osservare al riguardo lo psicoanalista che lo ebbe in cura settenne?). Vende kilt ed è l’attività in cui riscuote i successi maggiori (anche qui lo psicoanalista avrebbe qualcosa da dire?). Gira documentari televisivi, uno è sulla storia del baseball in Irlanda, tema che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno se non a lui.

Nel 1992 pubblica il suo secondo romanzo, Manfred’s Pain, Fazi, libro che poi rinnegherà definendolo «una stronzata». Una cosa che, nemmeno nei momenti di maggiore scoramento e disistima di sé stesso, potrà mai dire di Eureka Street. Pubblicato nel 1996, il romanzo prende il titolo dalla strada (inventata, è bravo anche nel ramo toponomastico McLiam Wilson) in cui vive il trentenne Chuck Lurgan, detto Chuckie, un ragazzo con pochi capelli e qualche chilo di troppo. Unico protestante in una compagnia di amici cattolici, Chuckie è uno dei tanti giovani irlandesi senza arte né parte. Per una tradizione famigliare che si perde nella notte dei tempi, ha una singolare mania: prova l’irresistibile desiderio di conoscere persone famose. E spesso ci riesce. Uno dei brani più divertenti del libro è il suo incontro con papa Giovanni Paolo II in visita a Belfast. Ora si dà il caso che Wojtyla sia l’odiatissimo «comandante» dei cattolici e dunque Chuckie, da metodista convinto, da bambino che riempiva i muri di Belfast con sigle tipo Ftp (Fuck the Pope) e Ftnp (Fuck the next Pope) dovrebbe almeno detestarlo. Però Giovanni Paolo II è una persona famosa e Chuckie, con la sua atavica attrazione per i vip, ricorrerà a tutta la sua astuzia per poterlo avvicinare.

La vita di Chuckie viene rivoluzionata quando conosce una splendida americana dalla tempestosa biografia, che, mi pare di ricordare, sia dotata di «seni palladiani» (la “senologia” è un’altra scienza in cui McLiam Wilson eccelle). Grazie a lei, Chuckie scopre, vendendo vibratori per corrispondenza, di possedere il talento dell’uomo d’affari. Diventa così un finanziere di successo e si dà pure alla politica. La fulminea carriera non gli inaridisce il cuore. Sul piano personale, Chuckie riallaccia i rapporti che sembravano essersi irrimediabilmente guastati con la madre. Costei si è accorta nel frattempo di essere sempre stata lesbica e si è fidanzata con una sua amica d’infanzia (Edipo 2.0?). Oggi i romanzi pullulano fino all’inflazione e al ridicolo di metamorfosi di questo tipo, ma allora la mossa di McLiam Wilson fu pionieristica, brillante e originale. Il carattere del personaggio materno è delineato alla perfezione in poche righe (e con ricorso massiccio alla senologia): «Da ragazza, la madre di Chuckie aveva ammirato estasiata i propri seni, ammaliata dalla loro soda pienezza, da una tale inusitata bellezza. Le sembravano magici». Se pensiamo a come si comportò la madre vera di Robert, queste righe fanno pensare (e avrebbero fatto pensare anche il suo psicoanalista di quando era bambino).

Un romanzo, due cuori

Come il celebre racconto di Hemingway, Eureka Street ha due cuori. L’altro è quello di un altro trentenne, amico di Chuckie e strambo tanto quanto lui, che si chiama Jake è più o meno orfano e vive nella borghesissima Poetry Street (altra bella invenzione toponomastica) insieme a un gatto campione di infingardaggine. A differenza di Chuckie, Jake è un bel ragazzo, però è sfortunato in amore. Ha idee politiche confuse, ma svolge di buon grado il suo lavoro di picchiatore professionista pur essendo un pezzo di pane.

Eureka Street è un inno alla vita, un inno ancora più incredibile e commovente provenendo da una Belfast turbolenta e martoriata. Jake, Chuckie e gli altri personaggi del libro (il monello Roche, l’irriducibile Aoirghe, la dolce Mary dai seni pallidi…) vivono immersi in un bagno d’odio. Il terreno su cui sorge Belfast è particolarmente fertile grazie al concime speciale assicurato dalle ossa degli innumerevoli morti ivi sono sepolti.

I rumori della notte a Belfast sembrano «quelli di un vecchio disco rigato». Poi, a un certo punto, quando il buio si fa più profondo, si leva una brezza fresca che attraversa la città e «sussurra che l’odio è come Dio: non lo potete vedere, ma se combattete in suo nome e credete ciecamente in lui, riscalderà le vostre notti».

Parole che oggi, a ventotto anni da quando furono scritte, suonano ancora più vere in un mondo che sembra diventato una immensa Belfast. E, non a caso, nel 2015 McLiam Wilson scrisse un formidabile articolo sull’Isis, Parigi e Belfast, in cui metteva in guardia dal pericolo di dimenticarsi dell’energia dell’odio. Forse avremmo dovuto dargli più retta.

Eppure, in ossequio a quell’incipit che sembra un comandamento, i personaggi di Eureka Street non si arrendono alla desolazione circostante e continuano a cercare, con la disperazione della fantasia e la fantasia della disperazione, l’amore.

Quando lo lessi nel 1996 il romanzo di McLiam Wilson mi divertì e straziò, mi illuminò con la sua intelligenza e mi intenerì con la sua grazia. Non feci in tempo a finirlo e già sentii che i suoi strampalati, dolcissimi eroi mi sarebbero mancati per sempre. La magia si è ripetuta ripercorrendolo adesso. E ora come allora riscriverei la frase che diceva: «McLiam Wilson scrive come un Dio». Un Dio che non è il Dio dell’odio. Una volta McLiam ha detto che lui racconta in modo che la commedia della vita prenda il sopravvento sulla tragedia della morte. È il segno dei grandi scrittori di cui abbiamo sempre più bisogno in un’epoca infestata da prefiche della letteratura.


The Extremists

I giornalisti che andavano a trovare come in un pellegrinaggio McLiam Wilson (McLiam è la traduzione in gaelico dell’inglese Wilson, cioè figlio della volontà) a Parigi, dove si era trasferito dopo il successo di Eureka Street, lo descrivevano come simpatico, tabagista (più di tre pacchetti al giorno), gattaro, tifoso di calcio forsennato e bloccato da anni a causa dell’enorme e meritatissima fortuna mondiale di Eureka Street. Quel clamoroso successo e quel non meno clamoroso amore dei lettori, confidava ai visitatori, lo mettevano in imbarazzo (questo basta a dire di che pasta è fatto). Se incontrava persone che gli parlavano bene di Chuckie e Jake (senza sospettare che gli stavano girando il coltello nella piaga), lui si schermiva e consigliava di leggere Tolstoj, the old Leo.

Nel 2015 Stefano Montefiori gli ha scritto una mail chiedendogli un’intervista per il Corriere. La risposta automatica della sua posta elettronica è stata: «Sì. Buongiorno buongiorno. Sono attualmente sequestrato in un luogo tenuto segreto nella speranza di terminare un romanzo dopo un intervallo di, umh, qualche anno. Così, può darsi che io non sia in grado di rispondervi in fretta a meno che: 1) Lavoriamo già insieme. 2) Siamo legati da un insieme predominante di indicatori genetici. 3) Mi offrite una somma di denaro indecente in cambio di quasi zero lavoro. 4) Mi fate una proposta grottescamente imbarazzante e vergognosamente sessuale. 5) Voi o il vostro messaggio attivano il mio senso di colpa in un modo infinitamente prevedibile. Naturalmente, suppongo che mi auguriate buona fortuna. Scusate, Robert». Un messaggio scherzoso certo, ma forse anche melodrammatico in senso pucciniano («Un po’ per celia, un po’ per non morire»).

Nell’intervista (una bella intervista) concessa poi a Montefiori, McLiam Wilson diceva di aver finalmente deciso di fare uscire The Extremists, il suo nuovo romanzo di 900 pagine, dalla pubblicazione più volte annunciata a partire dal 2006 e sempre infallibilmente rimandata, procrastinata a data da destinarsi. Da allora sono passati altri, umh, nove anni e di quel romanzo non si è ancora vista l’ombra. L’intervista, in cui lo scrittore parlava anche di un tentato suicidio nel 2000 e confessava la malinconia di fondo che lo pervade, fu la conferma che si trovava sempre in posizione di stallo come un re degli scacchi, che Eureka Street, l’ultimo suo domicilio letterario conosciuto, si è rivelata una prigione dorata dalla quale sembra impossibile evadere, e l’agognato romanzo successivo assume sempre più le sembianze di un fantasma che si aggira (rumore di catene) senza trovare quiete in una nottata che non passa mai.

La speranza è che McLiam Wilson torni presto. La sua voce manca, una voce coraggiosa che è stata liberatoria rispetto a luoghi comuni, a idee ricevute, a riflessi, culturali e politici, condizionati, propri della storia nordirlandese (e anche non nordirlandese). Una voce capace di dire di un martire come Bobby Sands cose mai dette da nessuno: «Prendiamo Bobby Sands, che fuori dall’Irlanda è molto rispettato ed è morto, cosa che mi dispiace. Ma le sue poesie erano orrende, una truffa». Sono cose spinose da dire, ma qualcuno deve pure farlo.

P.S. Ho sempre notato una straordinaria somiglianza tra McLiam Wilson e l’attore Kim Rossi Stuart (per cui volendo fare un film sulla vita di McLiam Wilson, e sarebbe un bel film, il casting, almeno per la parte del protagonista, è già sistemato).

Vicino a casa

Anche quest’anno dunque The Extremists non è stato pubblicato. A parziale consolazione è uscito l’anno scorso in Irlanda e ora in Italia (pubblicato da Mondadori) un altro romanzo che racconta i ragazzi di Belfast come aveva fatto nel 1996 McLiam Wilson. Si intitola Vicino a casa, è stato salutato come uno dei libri inglesi più importanti del 2023 e segna il debutto narrativo di Michael Magee, un 34enne senza capelli e con la barba, cofondatore della rivista Tangerine, pubblicazione che, come ha scritto l’Irish Times non si sa quanto volontariamente, ha fatto «voltare pagina» alla letteratura irlandese. Nato a Belfast, Magee si è ben presto reso conto di quante difficoltà questo continui a comportare.

A differenza dei suoi personaggi che si abbuffano di internet, Magee frequenta moderatamente Instagram dove posta foto di lui al pub (con bicchieri di birra inquadrati strategicamente in primo piano), oppure a festicciole in casa di amici con cappellini e coriandoli, oppure scatti scherzosi dove prova delle extensions biondicce per nascondere la calvizie. La storia raccontata in Vicino a casa è la seguente.

Sean Maguire è un bravo ragazzo di Belfast senz’arte né parte. Ha studiato a Liverpool (laurea triennale in lettere), ma poi è tornato a Belfast e ha scoperto che il pezzo di carta gli serve a poco. Abita in una casa dove non paga l’affitto e lo sfratto incombe. È diventato abilissimo a lavarsi a pezzetti in piedi davanti al lavandino. Vive di lavoretti nelle discoteche. Ogni tanto si sballa con gli amici di sempre (coca, vodka). Una sera la combina grossa a una festa di gente snob, ragazzi di famiglia borghese, tipi che di solito si guarda bene dal frequentare e che, infatti (come forse temeva), lo mettono in mezzo, lo prendono in giro (per il suo accento, la sua goffaggine). Lui sbrocca, ne prende a pugni uno (sapendo che quel che brucia non son le offese: Battisti funziona anche in Irlanda del Nord).

Nel codice d’onore dei ragazzi di Belfast risse così finiscono generalmente senza conseguenze, ma Sean viene denunciato per lesioni personali. Lo attende un processo. Un poliziotto (non si capisce se buono o cattivo) lo mette in guardia e gli consiglia di non prendere sottogamba la vicenda. Potrebbe spalancarsi un baratro.

Sean e Mairéad

A Sean piace leggere (e scrittori non banali: Knut Hamsun, Milan Kundera) e ambirebbe a scrivere. Mairéad, una amica d’infanzia per cui ha sempre avuto un debole, lo incoraggia a farlo. Anche lei ha problemi abitativi e si fa ospitare di qua e di là. Anche lei è costretta a svolgere mille lavoretti per campare. Di giorno è commessa in una boutique del centro. Di sera fa la ragazza degli shottini, una specie di entraîneuse che gira sulla pista della discoteca portando una guantiera piena di bicchierini colmi di vodka da vendere a quelli che ballano. Spesso, in quest’ultima veste, è costretta a incredibili acrobazie per evitare che le tocchino il culo o le abbassino le mutande a tradimento col rischio di mandare tutti gli shottini a infrangersi per terra (e le toccherebbe anche ripagarli di tasca sua). Ma Mairéad è una tosta. Sta mettendo nel salvadanaio sterline su sterline per potersene andare a Berlino, il sogno della sua vita. Però i suoi amici non credono che ci riuscirà.

Molte cose legano Sean e Mairéad. Provengono entrambi da famiglie disastrate. Ma la famiglia più disastrata è quella di Sean. Sua madre ha avuto tre figli da uomini diversi. Sean è l’ultimogenito e suo padre è un uomo che ha qualcosa da nascondere, qualcosa di infame. I fratellastri di Sean sono uno buono e uno cattivo (come i poliziotti). Il cattivo si chiama Anthony ed è una mina vagante, capace di mettere a soqquadro locali e case quando è incocainato. Tutti a Belfast hanno paura di Anthony, ma Sean gli vuole bene perché Anthony gli ha fatto da padre, lo ha protetto e scortato, gli ha perfino regalato il portatile su cui scrivere i suoi racconti. Non posso dirvi perché (perché vi direi troppo), ma il fatto che Anthony faccia da padre proprio a Sean dimostra di quale nobile e generosa pasta sia fatto al di là delle sue folli e teppistiche intemperanze, distruttive e autodistruttive.

La madre di Sean, ridotta a fare pulizie in giro per tirare avanti malgrado le sue cattive condizioni di salute (una infezione renale che peggiora giorno dopo giorno), è un bellissimo personaggio. A modo suo è una reduce dei Troubles, dei disordini che per anni hanno sconvolto Belfast. Lei era vicina di casa di Bobby Sands, il martire sempre pianto della causa repubblicana e cattolica, l’eroe che morì in carcere dopo sciopero della fame in nome dell’IRA e della rivolta contro la monarchia inglese e contro gli irlandesi protestanti. Il sangue che fu allora versato non si è ancora prosciugato nonostante la pace del Venerdì Santo firmata nel 1998.

La madre di Sean è una pittrice della domenica, pesca qualche foto che la ispira da internet e dipinge quadretti apprezzabili. Qualcuno lo vende anche ed è un introito importante per le sue povere finanze. La sera cena seduta sul divano guardando la tv. Il menù è sempre uguale (bastoncini di pesce scongelati). Piena di rimorsi e di rimpianti, si chiede di continuo se è stata una buona madre. Non sempre il valium riesce a sedare le sue paure. Paura che Anthony prima o poi compia qualcosa di irreparabile, che Sean finisca per diventare come Anthony. Le piace molto Mairéad, le piacerebbe che un giorno la ragazza degli shottini e Sean… E, forse, a questa speranza si lascia andare quando nei rari happy hour che si concede (alle cinque di mattina!) canta in cucina assieme all’amica del cuore Mary la loro canzone preferita: Killing Me Softly, che sembra l’invocazione di un atto di eutanasia. La madre e Mary non lo sanno ma Sean, invece, potrebbe saperlo: quella canzone è stata ispirata dal grande scrittore argentino Julio Cortázar, uno che scriveva racconti che magari a Sean piacerebbe scrivere.

Pensieri felici

Mentre il temuto processo per la scazzottata alla festa degli stronzetti snob si avvicina, Sean fa la sua vita di sempre tra alti e bassi. Subisce spesso umiliazioni sul lavoro da parte degli spocchiosi manager delle discoteche. Eppure basterebbe facesse arrivare all’orecchio di Anthony qualche notizia delle angherie patite perché, come un vendicatore solitario, il fratellastro rimetterebbe a posto i prepotenti. Ma non lo fa sapendo che la furia di Anthony può avere esiti apocalittici. Soprattutto da quando Anto passa ore e ore su YouTube ad abbeverarsi di leggende metropolitane, di panzane complottistiche ed è quindi fermamente convinto che non c’è mai stato alcuno sbarco sulla luna mentre c’è stato eccome, ma naturalmente è stato insabbiato, un controsbarco sulla Terra di extraterrestri a bordo di un disco volante. I resti dell’Ufo sono custoditi in Nevada, nella famigerata Area 51, e tenuti top secret per inconfessabili (un po’ orwelliani?) propositi. L’equilibrio mentale di Anthony già minato dalla bamba e dall’alcol viene messo a dura prova dalle teorie youtubiste e Sean si preoccupa molto per il fratellastro. Soprattutto da quando questi gli ha confidato di essere seguito da un elicottero che ogni mattina si alza in volo sopra Belfast per controllare i suoi movimenti.

Intanto Mairéad, dopo aver coabitato per un periodo con Sean, è partita per Berlino. Lui non sa più cosa pensare di lei: gli hanno detto che era una troia, pronta a prostituirsi in cambio di un alloggio per la notte, e gli hanno anche detto che aveva scoperto di essere lesbica. Il processo è ormai imminente e lui non ha uno straccio di testimone che certifichi la sua versione dei fatti, e cioè di non aver pestato a sangue nessuno, ma di essere stato aggredito da quei fottuti snob e di essersi limitato a reagire. Il cerchio attorno a lui si stringe e lui cerca come Peter Pan qualche pensiero felice. Quando il padre (l’infame) lo portava da bambino al campo di tiro a piattello (specialità di cui il genitore era campione). Oppure quando Anthony, patito di serie tv e convinto che lui sarebbe stato in grado di escogitare un finale migliore per I Soprano, gli chiedeva di aiutarlo a scrivere la sceneggiatura di una storia, ambientata negli anni Ottanta in America, con protagonisti mostruose creature che vivono da tempi immemorabili acquattati nel sottosuolo. Si chiamano Cacciatori della Notte e dispongono di superpoteri. Contro di loro si batte un eroico Navy Seal che tenta di scappare assieme alla sua famiglia per rifugiarsi in un bunker a prova di assedio in campagna. Racconta Anthony a Sean: «Sarà come la prima stagione di Walking Dead, capito? Solo che al posto degli zombie ci sono questi mostri che escono solo di notte e sono molto più spaventosi. Corrono su mani e piedi, tutti ingobbiti e urlano. Come quei figli di puttana che inseguono Frodo nel Signore degli Anelli. Urlano in quel modo lì, striduli e assordanti. Non sarebbe una figata?». Insomma, un delirio anche questo, ma forse più innocuo di quello dell’elicottero.

Poi arriva il giorno della sentenza al processo per lesioni personali. Poi Mairéad si fa viva da Berlino. Poi dal passato, dai tempi dei Troubles, riemergono notizie che riguardano ancora il padre di Sean, l’infame (che nel frattempo si è rifatta una famiglia e ha una figlia). Poi Sean lo scrive alla fine un racconto e lo manda a una rivista. E poi e poi e poi…

Non vorrei tanto insistere in un paragone tra Magee e McLiam Wilson al di là del fatto che sono compaesani e raccontano, seppure in epoche diverse, la stessa fetta di mondo. Ovviamente McLiam Wilson è più bravo e sa raccontare la speranza di una vita più bella a costo di inventarsela in maniera addirittura sbruffona. Magee non si concede (e non ci) concede illusioni e la sbruffoneria presente nel suo libro, quella di Anthony nelle vesti di sceneggiatore di serie tv, è, in realtà, l’ultimo stadio della disperazione. Vicino a casa è un romanzo che vale, che vi segnalo di cuore.

Faccio i miei complimenti a Magee (con un consiglio: di frequentare di più McLiam Wilson, magari anche andando a trovarlo di persona a Parigi, se gli riesce, e meno Sally Rooney). Infine, facendo i debiti scongiuri, interpreto l’uscita di un romanzo come Vicino a casa (per certe sue contiguità non solo di location con Eureka Street) come un buon segno. L’augurio che magari il giorno che McLiam Wilson tornerà in scena a riprendere il suo posto di grande scrittore irlandese contemporaneo (come lo elesse anni fa, quando tutto cominciò, la rivista Granta) sia prossimo. Finalmente.

© Riproduzione riservata